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Mille anni di estasi

Regia di Koji Wakamatsu vedi scheda film

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La recensione su Mille anni di estasi

di pazuzu
8 stelle

Oryu, anziana e molto malata, giace sul proprio futon e parla con l'immagine del marito defunto immortalata in un quadro collocato sul muro di fronte. L'angolo remoto dell'isola Okushiri che tutti chiamano Roji, il 'Vicolo', è da sempre tutto il loro mondo: ghettizzati perché discendenti (dunque considerati di fatto ancora appartenenti) di quella che fu la casta gerarchicamente più bassa nell'antico sistema sociale giapponese (i burakumin, letteralmente 'abitanti dei villaggi'), patirono la perdita del figlio di soli due anni per una grave malattia che non poterono curare per mancanza di denaro, quindi decisero di abbracciare Buddha; lui divenne monaco e lei devota levatrice, votata ad aiutare a far nascere bambini di altri e all'occorrenza educarli, non mancando di fornire mai, sempre da lui appoggiata, sostegno agli stessi anche in seguito.
Le riflessioni della donna riguardano l'infausta sorte della stirpe dei Nakamoto, costituita invariabilmente da maschi belli destinati all'infedeltà, ad una vita sopra le righe e ad una morte precoce; e su alcuni di questi, che lei strinse tra le mani prima ancora della madre naturale ma che prima di lei si spenserò - ed in maniera violenta, Oryu concentra il suo accorato racconto: sono Hanzo, donnaiolo impenitente incapace di guadagnarsi una stabilità negli affetti come nel lavoro, Miyoshi, schiavo delle emozioni forti date dal sesso dalla droga e dai furti, Tatsuo, che lei stessa contribuì ad avviare alla perdizione, e prima ancora Hikonosuke, padre del primo - che venne al mondo mentre questi moriva per mano di un'amante tradita.
Partendo dall'omonima raccolta di racconti dello scrittore Kenji Nakagami (un burakumin orgoglioso delle proprie origini, a differenza di altri che le tacevano - tacciono - per sfuggire allo stigma), con The Millennial Rapture l'ultrasettantenne Koji Wakamatsu sfida il razzismo che, latente, ad oltre un secolo dalla soppressione del sistema per caste (datato 1871) resiste e persiste nel proprio paese, elevando questa comunità di reietti dimenticati da tutti a protagonista assoluta: in quella che, nonostante il realismo (magico) della forma, assume presto i contorni di una favola cupa sul piacere e sull'autodistruzione, non c'è spazio infatti per i vessatori, discriminati e banditi dalla narrazione per provocatorio e beffardo contrappasso. All'interno del loro spazio, delimitato da un'inquietante nube chiara che sovrasta i monti e oltre la quale mai si volgerà lo sguardo del regista, Hikonosuke, Hanzo, Miyoshi e Tatsuo Nakamoto sono figure quasi mitiche, esseri magnetici ma profondamente imperfetti, uomini dissoluti ed eccessivi, dotati d'un fascino innato e dirompente ma incapaci del minimo autocontrollo, capaci di far capitolare ogni donna ma vittime del loro stesso sangue, sempre in cerca del godimento e in fuga dalla responsabilità, perennemente in bilico tra estasi ed intimo dolore.
Maestro nel filmare il potere insopprimibile dell'impulso sessuale - ragione e motore di ogni umano gesto - caricando altresì le immagini di un sottotesto politico, Wakamatsu cala lo spettatore in un'atmosfera sospesa ma genuinamente morbosa e maledetta (perfettamente accompagnata in musica dal folk scarno di Hashiken e dalla voce profonda di Mizuki Nakamura), mostrandosi apparentemente parco (certo più che in passato) con le rappresentazioni estetiche della lussuria, ma donando alla narratrice Oryu (una sofferente e grandiosa Shinobu Terajima, da lui recentemente diretta anche nello stupefacente Caterpillar) uno sguardo al contempo materno e turbato, e scegliendo di concluderne la parabola con una sequenza dal sapore incestuoso ma paradossalmente liberatorio in cui il cinema vola alto e lo scandalo lascia spazio alla poesia.

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