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La regola del silenzio - The Company You Keep

Regia di Robert Redford vedi scheda film

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La recensione su La regola del silenzio - The Company You Keep

di michemar
8 stelle

Il Condor continua a fuggire. Perché dopo 30 anni la verità deve venire a galla.

Il Condor continua a fuggire. Perché dopo 30 anni la verità deve venire a galla.

Non si può iniziare una recensione facendo riferimento all’impegno politico di Robert Redford, lo fanno tutti, ogni articolo su questo film ne parla come argomento imprescindibile. Non lo voglio fare neanche io ma, dicendolo, l’ho fatto. D’altronde come si può scindere la figura del rosso settantaseienne dalle lotte dell’ala democratica (quindi di sinistra) della politica statunitense, se lui in prima persona ha prima recitato e poi diretto tanto cinema denso di storie polemiche verso le amministrazioni USA? Lui non si è mai nascosto e con la sua arte ci ha mostrato la faccia dura e spietata dell’America, narrando vicende di gente stritolata dal potere o utilizzata a sua insaputa a fini politici, o addirittura, come dice una delle protagoniste di questo film, Mimi Lurie, di persone etichettate con semplici numeri e poi spedite in Vietnam, senza sapere se poi tornavano vivi o no. Oggi il Vietnam si può sostituire con le parole Afghanistan o Iraq, e il senso non cambierebbe. E non è semplicemente politico: l’impegno è anche e soprattutto impegno civile, dal momento che tanti lavori di Redford hanno come spunto iniziale la storia degli Stati Uniti, vecchia (“The Conspirator”) e recente. Come si fa, guardando quest’ultimo film, a non riandare con la mente ai famosi e mitici Tre Giorni? o al tanto celebrato “Come eravamo”? e soprattutto al film basilare del giornalismo moderno raccontato da Alan J. Pakula? Perfino nel Corvo Rosso di Pollack si parla di tolleranza e convivenza tra il bianco invasore dell’Ovest e i nativi americani.

Stavolta Redford ha chiamato a sé un cast di lusso, disponibile ad apparire in una storia che racconta sì che gli studenti ribelli erano anche violenti e quindi fuori legge, ma che le ragioni non erano poi così tanto sbagliate. Uno stuolo di attori vecchiacci (uno spettacolo ascoltare la voce rauca e maledetta di Nick Nolte) e attrici ormai mature e sempre affascinanti non si sono tirati indietro e hanno dato il loro massimo, in un film che sembra ancora girato dal compianto Sidney Pollack, degno compare e director di tanti film di Robert.

Robert Redford

La regola del silenzio - The Company You Keep (2012): Robert Redford

Non capisco la critica di diversi opinionisti, professionisti e no, discretamente avversa a questo film, che io ho trovato splendido, basato su alcuni fattori vincenti. Prima di tutto una sceneggiatura serrata, senza pause; anche se è una storia che si può definire thriller d’azione (il protagonista Jim Grant non sta mai fermo in un posto, costretto a spostarsi continuamente, tra l’altro, nei luoghi simbolo della contestazione giovanile americana), sono i dialoghi veloci e sagaci che danno una verve, sorprendendo lo spettatore, e che con frasi brevi spiegano la filosofia della storia. Un altro fattore della riuscita è appunto il cast eccezionale, che recita come ci si può aspettare da loro - uno spettacolo nel film - anche se per alcuni attori l’apparizione dura solo pochi minuti. Susan Sarandon all’inizio pare la figura centrale, invece, pur rimanendo il personaggio da cui scaturisce la storia raccontata, sparisce dopo il primo quarto d’ora. Così succede a Nick Nolte, Richard Jenkins e compagnia e ognuno di loro è la dimostrazione che nella vita SI CAMBIA: da giovani si è sicurissimi di essere dalla parte giusta, giusto combattere, addirittura giusto mette le bombe (quelle fuori orario, però, per non far male alla gente), per poi ritrovarsi nella maturità pentiti e cambiati, quindi imborghesiti e immessi nei ruoli dell’establishment che avevano combattuto. Vi entrano per mimetizzarsi e quindi “sparire”. Cambia e si arrende perfino il personaggio che dà la svolta finale alla trama, quando meno te l’aspetti. La frase chiave difatti, di questa bella sceneggiatura, la dice proprio la succitata Mimi Lurie, quando Grant/Redford le assicura che le cose cambiano, ma lei pare in disaccordo: “I tempi cambiano, baby”, e lei “I tempi, forse”: lei è testarda e irremovibile. E poi, invece… Se ci guardiamo intorno, anche in Italia i sessantottini nostrani hanno combattuto e purtroppo ucciso, ma oggi sono persone rientrate nei ranghi borghesi. Sono rimasti della loro idea di forte sinistra, ma fanno i giornalisti, scrivono libri, insegnano alle università e affermano che è stato sbagliato sparare.

Se Jim Grant è il personaggio principale su cui gira la storia, il trait d’union è il giovane reporter di un giornale locale di Albany, Ben Shepard, ben interpretato dal sempre più emergente Shia LaBeouf: è lui che con la sua inchiesta è sempre in anticipo di almeno una tappa rispetto alle indagini serratissime dell’FBI nella ricerca degli allora giovani attivisti, trent’anni dopo i fatti avvenuti e conclusisi con un omicidio. E’ sempre lui che scopre prima di tutti la verità e che raggiunge per primo il fuggitivo. Alla fine quindi la verità viene a galla, anche se questa costa la rinuncia all’anonimato del personaggio chiave e alla sua resa: la ancor bella Julie Christie, rinunciando alla sua irremovibilità, si arrende sapendo che solo così potrà salvare il suo antico amico e corteggiatore.

Ben recitato da tutti anche se con brevi apparizioni, il film è veramente bello e appassionante, la regia è ineccepibile: ho ammirato in particolare la scena del colloquio in carcere fra LaBeouf e Sarandon in cui i primi piani di profilo contrapposti l’uno all’altro, tra cose dette e non dette, inizia veramente l’inchiesta del giovane rampante giornalista.

Gli anni passano per il rosso Robert e le sue rughe recitano ancora per noi, sempre sulla breccia: è il cantore dell’America senza candore.

 

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