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Our Homeland

Regia di Yong-hi Yang vedi scheda film

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La recensione su Our Homeland

di OGM
8 stelle

La regista Yong-hi Yang è nata a Osaka. Ma la sua famiglia è di origine coreana. Suo padre, sostenitore del regime di Pyongyang, ha voluto che i suoi tre figli maschi, una volta adolescenti, si trasferissero lì, al fine di vivere un’esistenza felice e libera da discriminazioni. Questo film racconta una storia vera: il protagonista è ispirato ad un personaggio reale,  uno dei fratelli di Yong-hi, affetto da un tumore al cervello, che ottiene un permesso speciale di tre mesi per recarsi in Giappone e ricevere adeguate cure mediche. Il suo ritorno, dopo un’assenza di venticinque anni, è motivo di grande gioia, ma anche di inquietudine, per quel giovane malato che appare così distante, estraneo alla cultura a cui appartiene per nascita, e dunque si mostra disorientato, esitante e malinconico. L’ambiente nipponico, tradizionalmente immerso in una luminosa serenità, o in una limpida tristezza, si riempie improvvisamente di un lento torpore, un senso di vuoto che sembra rimandare ad una cupa nostalgia dell’ignoto. La percezione del nulla non è di casa, nel cinema del Sol Levante,  perché anche il nichilismo è una passione che abbraccia la concretezza, quella della morte celebrata nel sangue, o dell’istinto assurto ad eroismo. Tuttavia, questo racconto si lascia placidamente invadere da quella disperazione senza fondo, da uno sconforto privo di carattere, tale da trasformare l’intimità domestica in un mondo acquatico, in cui gli sguardi hanno paura di incontrarsi e le parole stentano ad uscire, nel timore di essere fraintese. Nei ricordi comuni esistono soltanto scelte incomprensibili, ma ormai compiute, che hanno reciso le radici dei sentimenti e della ragione:  alle spalle non si ha più niente, e l’unico attaccamento possibile  è quello rivolto all’infinito dolore di essersi persi per sempre.  Un’atmosfera nel contempo rarefatta e pesante ci avvolge sin dal primo momento, facendoci pensare a quell’altrove chiuso nel buio fitto di un autoritarismo dai connotati surreali, e dal quale si direbbe non possano evadere nemmeno i palpiti del cuore. Song-ho porta con sé una freddezza ed un grigiore che chiudono a chiave l’anima, imponendole il silenzio assoluto, imprigionandola nel terrore di lasciarsi sfuggire rivelazioni proibite. In Our Homeland manca soprattutto l’aria, tanto che è difficile persino tirare un sospiro, di sollievo per un figlio ritrovato, o di trepidazione per il suo destino drammaticamente incerto. La narrazione è bloccata da una sofferta reticenza, che si intreccia fatalmente con l’impossibilità di amare. L’ospite è l’intruso, che si trascina dietro il gelo di un errore irrimediabile: quello di chi, credendo di agire a fin di bene, lo ha condannato alla lontananza da tutto ciò in cui poteva riconoscersi. Song-ho, incapsulato in un inquadramento ideologico che sembra averne risucchiato l’identità, si presenta incapace di dare e ricevere affetto. Nella sua solitudine, è ridotto a nessuno. La sua unica parte viva è la sorella che, nonostante tutto, non vuole rinunciare a cercarlo.

 

Questo film è stato candidato, per il Giappone, al premio Oscar 2013 per il migliore film straniero.

 

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