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ZENNE Dancer

Regia di Caner Alper, Mehmet Binay vedi scheda film

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La recensione su ZENNE Dancer

di OGM
8 stelle

In Turchia si pratica ancora il delitto d’onore. Che può essere quello commesso da un padre ai danni del figlio omosessuale. Nel 2008, il ventiseienne Ahmet Yildiz è morto così. Questo film è ispirato alla sua storia, e attraverso di essa ci spiega cosa significhi essere gay in una nazione che si proclama moderna e rivendica la propria appartenenza all’Europa. Il danzatore ZENNE, che si esibisce in un locale notturno con movenze femminili ed il corpo coperto da veli e lustrini variopinti, si chiama Can. Suo padre è un caduto di guerra, mentre suo fratello, dopo essere stato sotto le armi, è tornato a casa con gravi problemi psichici, dai quali non si è mai più ripreso. E lui, che non ne vuole sapere di presentarsi alla visita di leva, è ufficialmente un disertore, ricercato dalla polizia e costretto ad uscire solo dopo il tramonto. Per essere esonerato dal servizio gli basterebbe provare la sua omosessualità. Presentando foto oscenamente esplicite. Can preferisce rimanere nel buio, ad inseguire il sogno impossibile di una vita diversa, priva di denaro e di successo, ma intrisa di una misteriosa magia, che è un misto di arte ed illusione. All’occorrenza, per guadagnare qualche soldo, Can si improvvisa veggente, leggendo il destino altrui nelle carte o nei fondi di caffè. Gli piace dare speranza, soprattutto a chi è in cerca di un amore perduto. È un profeta dell’assenza, alla quale sa dare una forma fantasiosa e seducente, impalpabile ma appassionata. Il suo palcoscenico è il teatro immaginario di un’esistenza che potrebbe avere i colori di una favola, se solo non esistesse il resto del mondo, con le sue volgarità che si crogiolano alla luce del sole. Tra queste, il mito di una virilità che si misura sulle prestazioni sessuali, sull’abilità nel combattere, sull’impegno a coltivare la tradizione familiare e religiosa. Fuori da questi modelli c’è solo la vergogna. Can la maschera col suo vistoso trucco di scena, e se ne fa un vanto. Il suo amico Ahmet, che è figlio di Kezban, una madre autoritaria e fondamentalista, e di un padre totalmente imbelle, è invece portato a nascondersi, a negare, a pagare Zindan, l’uomo che gli è stato messo alle costole, perché taccia sulle sue frequentazioni. La sua unica opportunità di salvezza è la proposta di Daniel, il fotoreporter tedesco giunto ad Istanbul per lavoro, che si innamora di lui e lo invita a seguirlo in Germania. La fuga è la sola soluzione quando la verità non ha modo di farsi valere, e la voce dell’anima deve restare coperta dalla menzogna. Nella società ritratta in questo film non c’è posto per l’essere che intende definirsi da sé, seguendo le inclinazioni che vengono da dentro. Le identità devono essere categorizzate, a cominciare dalla differenza tra pulizia e sporcizia. Per Kezban, le magliette colorate di Ahmet sono solo buone come strofinacci per lavare il pavimento. E il suo dovere di figlio è tornare al paese natio, per assistere il padre negli affari, che ultimamente stanno andando male. E, naturalmente, fidanzarsi con una brava ragazza appositamente scelta da lei. Daniel, che ha da tempo dichiarato apertamente la sua omosessualità ai genitori, non capisce. La sua realtà e quella in cui vive Ahmet sembrano separate da secoli di storia. Il suo sentimento, che avverte come un trasporto spontaneo e privo di ombre, pare destinato a calpestare un campo minato. Si inserisce nella ferita aperta di una cultura, toccando i punti più deboli e pericolosi di un universo apparentemente pacifico, eppure profondamente malato di disumanità. C’è una minaccia letale che cova sotto una superficie ridente, come quelle maledette bombe, sepolte dentro la sabbia, che, alcuni anni prima, avevano fatto a pezzi un gruppo di bambini afghani, mentre si spostavano per mettersi in posa davanti al suo obiettivo. Per la seconda volta, Daniel si accorgerà troppo tardi di avere smosso un micidiale tabù. Il pregiudizio è una legge spietata e perentoria. Chi vive nelle civiltà evolute tende troppo spesso a dimenticarlo. Ci sono luoghi in cui il proprio modo d’essere può essere considerato un errore, un reato, un sacrilegio. Il film di Caner Alper, per ricordarcelo, costruisce un racconto in cui si intrecciano affetto ed amicizia, in un abbraccio disperato che una perversa forma di giustizia vorrebbe a tutti i costi spezzare. E intanto, la drammatica avventura di tre individui diversi ci induce a chiederci se esistano davvero una maniera giusta ed una sbagliata di essere uomini; ed, in caso affermativo, se questa distinzione sia precisamente quella in nome della quale è lecito premere il grilletto contro il proprio stesso sangue.

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