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The Bourne Legacy

Regia di Tony Gilroy vedi scheda film

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La recensione su The Bourne Legacy

di M Valdemar
4 stelle

The Bourne Legacy, ovvero come dilapidare un patrimonio … affidando la cospicua eredità nelle mani di un esecutore testamentario che, pur avendo notevole familiarità col prezioso bene ed anzi avendone contribuito all’accumulo della fortuna, si rivela completamente inaffidabile.
Il soggetto in questione è, naturalmente, Tony Gilroy, autore delle sceneggiature della trilogia di Bourne. Chi meglio di lui, dunque, per proseguire (fermarsi no, eh?) l’eccellente saga spy action thriller che ha rinnovato i canoni del genere ed abilmente soffiato lo scettro a quelle più “nobili” - in realtà giocattoloni infarciti di effetti speciali ed inverosimiglianza - di Mission: Impossibile e James Bond?
Qualchedun altro, evidentemente.
Questo quarto capitolo, che mantiene fieramente nel titolo il nome-simbolo-amuleto “Bourne” (altrimenti come cercare di distinguersi dalla massa informe enorme eterna di prodotti analoghi?), tanto per esser chiari, è fallimentare. Sotto tutti gli aspetti, a cominciare -  ma guarda un po’ - dallo script (a voler fare troppe cose …): involuto, inefficace, semplicemente brutto. L’obiettivo primario è ovvio: inserirsi nel prospero solco tracciato dall’impavido agente senza memoria passando l’ardua consegna a uno nuovo, sconosciuto, da presentare alla platea (già così ben abituata) e renderlo immediatamente (av)vincente.
Ahi.
Se c’è una cosa che proprio non è riuscita è quella: questo tizio, Aaron Cross (le cui generalità vengono sì e no pronunciate due/tre volte, in fretta e in sordina …), non è minimamente interessante, mai. Si tratta di un personaggio - già derivativo all’origine - costruito male, le cui motivazioni, vicende personali, relazioni con gli altri, risultano in buona sostanza trascurabili e certo non importanti. In tal modo il protagonista è privo di fascino, l’empatia scatta esclusivamente per inerzia ed è debole, appesa al filo cronologico che si blocca e s’azzera all’apparir dei titoli di coda.
[E’ quindi lo spettatore, ora, a non aver più memoria.]
Occorre in pratica tutta la prima parte (statica, pesante) per piantare i semi del nuovo eroe, presentatoci in una veste quasi ascetica alla conquista delle terre selvagge dell’Alaska tra lupi, asperità e farmaci miracolosi (in questo aspetto totale deragliamento) che, scampato il pericolo da morte sicura ordinata dalle solite menti grigie in seguito agli avvenimenti aventi per protagonista il Bourne originale (i collegamenti si sprecano), passa all’azione. Si fa per dire. Il fatto è che il film non decolla mai, schiacciato com’è negli ingranaggi tutt’altro che oliati di un complesso di intrecci che si fa fatica ad apprezzare. Ed oltretutto già visti e stravisti. Il ritmo è lento, singhiozzante, e la messa in scena è poco fluida e precisa, probabilmente il regista pensava di replicare i toni politici del suo (sopravvalutato) film d’esordio, Michael Clayton.
Il parallelo con gli accadimenti narrati nel terzo episodio della serie sono, a ben vedere, puramente strumentali, come del resto le comparsate di volti noti (Joan Allen; Paddy Considine; Albert Finney ecc.), e certo non mutano la sensazione di stanchezza e faticosità che la visione ispira. Neppure le (poche) scene di azione aiutano, anche perché paiono inserite a casaccio e confuse, poco calibrate, e senz’altro non girate in modo tale che scateni la presa sul pubblico. In sintesi: non c’è una sola scena che valga quelle dei film precedenti.
Punto focale era la scelta dell’interprete principale: Jeremy Renner. Attore generalmente valido che qui, più per colpa della scrittura del personaggio che per demeriti suoi, non riesce ad essere incisivo, affascinante, e a dare spessore alla figura bidimensionale di Cross. Non cattura né risulta nemmeno troppo simpatico, pare giunto nel film per caso. Brava invece Rachel Weisz, pur alle prese con una parte che aveva poco da dire. Infine, quello a cui era riservato il ruolo del solito cattivo che agisce per il bene del Paese è Edward Norton: sprecato, letteralmente. Ma lui per primo, al di là delle consuete dichiarazioni entusiastiche di promozione alla pellicola, sembra non crederci (non che gli si possa dar torto). Risulta incomprensibile come un fuoriclasse come lui negli ultimi anni si stia perdendo in parti non memorabili, non alla sua altezza. Mistero.
In linea con la piattezza diffusa anche il finale delude: giunge quasi inatteso, ma non è nulla, è come pensato e risolto sbrigativamente. Il perché è presto detto: la saga “deve” continuare …
Però non si può constatare come, affinché ciò avvenga, si possa fare a meno del vero Jason Bourne. A cui tale Aaron Cross non potrebbe fare che da (modesta) spalla.

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