Regia di Roger Michell vedi scheda film
Guardi A Royal Weekend e non riesci a liberarti dalla sensazione di averlo già visto. Perché in quella visita, la prima, di un monarca inglese negli Stati Uniti ritrovi I due Presidenti, che riproponeva anni dopo, in proporzioni decisamente più piccole, la stessa dinamica (forse) rovesciata. Se infatti nel film di Roger Michell c’è quel fine settimana del giugno 1939 in cui Franklin Delano Roosevelt e signora accolsero Re Giorgio VI e consorte, in quello di Richard Loncraine abbiamo Bush e Blair, loro indegni eredi. Cinematografici e storici. E la differenza tra due buoni film alberga tutta, forse, nella diversa statura dei protagonisti reali e degli attori scelti per raccontarli. Già, perché un Bill Murray così in palla era da anni che non lo vedevamo, in un ruolo perfetto per quel talento senile che lo porta a gigioneggiare, a grondare carisma e a dissacrare un monumento. E Roosevelt, in fondo, Presidente paraplegico (pochi se lo ricordano, se non per le sue stesse battute in merito: dalla sua sedia teneva le redini del Paese come pochi altri), era tutto questo: un affascinante sornione che amava spiazzare i suoi interlocutori. Nella quotidianità di una visita ufficiale e allo stesso tempo informale, Michell ha l’intuizione di metterci l’umanità di Notting Hill e non la solennità di film politici o “monarchici”. E seppure il Giorgio VI di Samuel West è schiacciato dal confronto con il Colin Firth di Il discorso del Re, tutto fila via sul binario di una divertita commedia nella commedia: la recita di due Capi di Stato stretti dal protocollo e dalla sceneggiatura. E che, a entrambe, si ribellano, trovando un’intesa vera (quella che a Blair e Bush, nel film come nella verità, mancherà sempre), un affetto personale che diventerà piattaforma di un accordo non solo tra due Paesi (e imperi), ma tra due culture. Se nel film di Loncraine si sente una duplice sudditanza - quella di Blair è militare, quella di Bush intellettuale -, qui ci si sente più che altro in una sfida. Tutto è romanzato, come in una storia che i nonni raccontano ai nipoti. E alla fine il fascino di un’opera gustosa e “normale” è proprio in un tono imprevedibilmente leggero. E nel delizioso cast femminile (Linney, Williams e Marvel).
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