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Ramin

Regia di Audrius Stonys vedi scheda film

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La recensione su Ramin

di OGM
8 stelle

Ramin Lomsadze è stato un grande campione di wrestling. Una volta ha vinto sette incontri nell’arco di soli 55 secondi. Oggi ha 75 anni, e vive ancora nella sua Georgia: una terra povera, ma piena di gente ricca di fantasia, e piena della voglia di lottare per andare avanti. Combattendo su un prato, oppure bevendo e cantando in compagnia. Ramin è solo: non si è mai sposato, ed ora trascorre le sue giornate pensando all’amata madre, morta tanti anni fa,  della quale conserva una fotografia, e che regolarmente va a trovare, al cimitero, offrendole pane e vino. Il regista lituano Audrius Stonys gira un documentario di cui Ramin è il protagonista silente, e le cui poche parole si perdono nel vento, perché sono solo versi di canzoni, o preghiere rivolte ai defunti. Ci sono, è vero, gli amici, che vengono a casa sua per festeggiare il suo compleanno, e ci sono anche i piccoli aspiranti lottatori, a cui dà sempre buoni consigli. Quegli incontri sporadici, e soggetti ad una precisa ritualità, non sono però sufficienti a colmare il vuoto da cui si sente circondato. È come se tutti lo avessero dimenticato, e nessuno volesse più venire in suo aiuto. La sua fama è tramontata, e con essa anche i sogni di gioventù, come quell’amore per una ragazza di nome Sveta, della quale non ha saputo più nulla. Ramin decide infine di partire, per andarla a cercare, nel paese dal quale lei una volta gli aveva spedito una cartolina. È questo l’estremo tentativo di dare un senso ad un’esistenza che si è spenta insieme ai clamori della gloria, gli echi dei successi sportivi, le fanfare di un mito che sembrava dover durare per sempre. Ramin è stato un eroe, mentre adesso è soltanto un povero diavolo che si confonde tra la folla e guida un’auto scassata, mentre attraversa il mondo con lo sguardo sbigottito e rassegnato di chi è consapevole di non poterlo più capire. Se ne sta in disparte, come chi sa di non poter trovare posto, in nessun luogo, perché per lui non esistono né una famiglia, né un pubblico, né un traguardo da raggiungere. Quell’uomo, ormai anziano e visibilmente logorato dalla fatica, non è niente altro che un dettaglio in mezzo al paesaggio campestre, popolato di bestiame che riempie la scena con la sua inespressiva immobilità, o con  i suoi movimenti lenti e sgraziati, come appesantiti dalla certezza che il tempo si è fermato, e nulla potrà più cambiare, in quello sperduto angolo del globo di cui non si sente mai parlare.  Ramin, come l’obiettivo della macchina da presa, si limita a guardarsi intorno, lasciando a noi il compito di pensare, e magari commuoverci e piangere, di fronte ad un tramonto che sembra stanco del proprio stesso declino, e si trascina monotono, senza riuscire a compiere la propria fine.

 

Ramin è stato il candidato lituano al Premio Oscar 2013 per il migliore film straniero.

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