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Outsider

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Outsider

di OGM
8 stelle

Outsider è l’uomo che vive in primo piano, mantenendo il resto dell’universo sullo sfondo, a fare da variegato contrappunto alla sua personale interpretazione della vita. La sua ribellione è solo la posizione di chi rivendica la propria libertà di soffrire, di reagire a proprio modo alla sfortuna e all’incomprensione del mondo circostante. La sua rivolta è intrinseca, perché diretta contro le comuni regole della ricerca della felicità: il vagabondaggio è l’unico rimedio, perché il dolore è ovunque, mentre la gioia non è mai dove la maggioranza crede che si trovi. András persegue, coerentemente, un progetto esistenziale basato sulla mancanza di punti di riferimento, che tutto vuole tentare, perché tutto è ugualmente soggetto al fallimento. Non gli sta a cuore mantenere ciò che gli capita di avere, perché al possesso preferisce l’utilizzo temporaneo; András vuole essere eternamente di passaggio, rubando al volo ciò che può essergli momentaneamente utile, e mollando la presa sul bottino prima che sia il destino a strapparglielo di mano. È questo il motivo per cui l’uomo sembra andare, ogni volta, coscientemente incontro alla perdita: il suo andare oltre segue il percorso di un abbandono programmato, che consente di prevenire i colpi della sfortuna. András continua a bere sul lavoro, anche se ciò gli costerà l’impiego come infermiere. Da ragazzino si era fatto cacciare dal conservatorio, nonostante suonare il violino fosse la sua unica vera passione. Da adulto sposerà una donna che è l’amante di suo fratello, e volutamente la trascurerà per dedicarsi alla musica. Già in questa opera, il cinema di Béla Tarr rivela la sua visione nomadica della condizione umana: una sorta di danza ungherese, in cui il movimento è una continua fuga dalla stabilità che crea legami ed opprime, ingabbiando l’esistenza in ritmi sempre uguali. La ripetitività del ballo di gruppo e dei riti della convivialità è un motivo ricorrente della sua filmografia; e l’inserimento, nelle scene di festa, di un elemento destabilizzante, è l’indicatore di una volontà di rompere gli schemi, introducendo nell’uniformità della tristezza collettiva un solitario acuto di disperazione. La società è un immenso corteo funebre, una gita organizzata verso l’inferno, ma quasi nessuno sembra rendersene conto. È sempre una sola persona a sentire il bisogno di staccarsi dalla massa e mettersi a gridare, a ridere, a contorcersi, traducendo la lucidità in un improvviso attacco di follia. L’individualismo di András è contiguo alla psicosi dei ricoverati in manicomio, alla solitaria stravaganza degli artisti, all’esaltazione dei giovani in cerca di emozioni forti. Solo con questi personaggi non allineati il protagonista riesce ad instaurare un vero dialogo, a parlare del (non)senso della vita, in frasi o in melodie. Tutto il resto fa parte di uno spazio rigorosamente strutturato, in cui ci si dà appuntamento in precisi orari per scambiare due parole, in cui il tempo, come il denaro, è oggetto di scambio o di ricatto; perché, per gli altri, quello che conta non è essere, bensì esserci. nei modi e nei momenti in cui essi hanno bisogno di te. Il drammatico destino di András e degli “sbandati” che gli fanno da contorno non ci fa capire se la maledizione, per la nostra specie, stia nell’emarginazione o nell’inquadramento: però forse la salvezza è, semplicemente, dalla parte di chi, nonostante tutto, riesce a restare coerente ed evitare la sconfitta.

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