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Nuit #1

Regia di Anne Émond vedi scheda film

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La recensione su Nuit #1

di OGM
8 stelle

Ci sono notti in cui tutto inizia, e tutto finisce. Perché si chiede come ti chiami mentre si sta già facendo l’amore, e poco dopo ci si risveglia dentro un letto vuoto. L’avventura passa e va, ma allora non è degna di tal nome. Nikolai, infatti, non vuole che la faccenda si esaurisca in un anonimo scambio di contatti fisici, da concludere senza neanche dirsi ciao. Per questo trattiene Clara, la prega di risalire, quando la vede scendere le scale per andarsene. Di lei vuole sapere di più, non gli piace l’idea  che sparisca per sempre, senza fargli conoscere il seguito di sé. Soffre al pensiero che non la vedrà mai in un edificio pubblico, durante l’orario d’ufficio, in un giorno feriale, che non si troveranno mai insieme a parlare a voce bassa in un’agenzia di pompe funebri, che lei non lo odierà mai per le sue menzogne. Nikolai descrive il vuoto in cui la loro storia certamente precipiterà, al sorgere del sole. E vuole che Clara lo percepisca, condividendo la sua angoscia di essere solo, sull’orlo di quel nulla che è diventata la sua vita, di immigrato, di studente di belle arti che non ha potuto laurearsi, ed è eternamente senza soldi, riesce a malapena a pagare l’affitto di quell’appartamento squallido, ma non ha voglia di cercarsi un coinquilino. La deriva non è quel rapporto occasionale, è, invece, tutto quello che gli sta intorno. Quelle ore trascorse insieme ad una donna sconosciuta possono infatti essere piene ed intense, e non solo di passione carnale. Basta riempirle dell’illusione di entrare nell’anima dell’altro, lasciando che sia la propria a farsi strada in quel territorio inesplorato, a suon di ammissioni, di confessioni, di verità umilianti. Nikolai sta orribilmente, e di questo suo disagio sa descrivere alla perfezione i sintomi, mentre ne ignora totalmente le cause. Anche Clara prova lo stesso malessere, e se ne accorge solamente adesso, ascoltando lui che le parla della detresse. È una condizione di disperata necessità, talmente estrema da non poter esser meglio precisata. È una situazione limite,  in cui si manca di tutto, ma non si capisce esattamente di cosa si abbia bisogno. Forse perché non si sa da quale parte cominciare. Il disorientamento si spinge oltre il confine della stessa ragione, per invadere il vasto regno dell’ineffabilità. Anche il discorso tra Nikolai e Clara procede a caso, per associazione di idee, e basta il fugace riferimento ad un avvoltoio per scoprire un punto comune, il collegamento tra due mondi disgiunti, però ugualmente smarriti. Anche Clara, alla fine, si apre, perché quel rapace col becco inadatto a cibarsi di animali vivi è l’argomento sul quale i suoi alunni hanno svolto una ricerca. È una maestra di scuola dalla vita privata tormentata, che si fa riprendere dal preside per l’abbigliamento poco consono al suo ruolo. Inadeguati si nasce, e tali si rimane per scelta. O magari perché non si hanno alternative. Da un certo tipo di emarginazione non si esce, perché lì dentro ci si sente splendidamente male. Nikolai e Clara si godono, ognuno a proprio modo, la scomoda compagnia della loro diversità. La si può rendere reale e visibile, volgendola in prosa o in poesia, ma ciò non basta a cambiare le cose. Serve solo a testimoniare la sua tribolata esistenza, che possiede la temibile dignità delle presenze eterne, scolpite nel marmo della rassegnazione. Questo film, lungometraggio d’esordio della regista e sceneggiatrice canadese Anne Emon, scava nei bassifondi della vita comune, per metterne a nudo i tesori maledetti che vi giacciono sepolti, sotto il convenzionale silenzio della normalità. Il flusso di parole si condensa in un racconto immobile, che si immerge nella desolazione dell’immutabilità con la dolorosa energia di una ricerca della felicità convertitasi, ormai, in una rabbiosa ritirata.

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