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Color of the Ocean

Regia di Maggie Peren vedi scheda film

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La recensione su Color of the Ocean

di OGM
8 stelle

Ci sono amori di cui ci vergogniamo. Nobilissimi, eppure segreti. A dare scandalo, infatti, è l’oggetto del nostro sentimento. Come una sorella tossicodipendente. Oppure un immigrato clandestino. Certi mondi devono restare disgiunti, per non creare pericolose ambiguità. Da una parte i poliziotti, dall’altra i criminali e gli sbandati. Da una parte i ricchi turisti europei, che affollano le spiagge delle Canarie,  dall’altra i disperati giunti dall’Africa su un barcone. La commistione è disdicevole, e forse finanche pericolosa. Questo film racconta cosa significhi cedere ai pregiudizi, e volgere lo sguardo altrove, e cosa invece accada quando, coraggiosamente, si decide di porgere una mano e dare conforto. Si direbbe la versione moderna di una parabola evangelica. Qualcuno incontra un uomo ferito e tira dritto, qualcun altro, invece, si ferma per soccorrerlo.  José è il sacerdote ed il levita. Nathalie è il buon samaritano. Il primo non risponde alle chiamate di Marielle, che è sola, senza soldi, e vittima dell’eroina. La seconda fa tutto ciò che può per aiutare Zola, che, appena sbarcato dopo un viaggio estenuante, chiedeva acqua per il figlio Mamadou. L’istinto, nell’emergenza, dà risposte diverse. Per la ragione è difficile capire quale sia quella giusta. Ed anche il cuore può momentaneamente perdere il senso dell’orientamento. A posteriori, ci si può pentire di non aver ascoltato l’uno o l’altra: è il crudele responso del senno di poi. E ciò che rimane dentro l’anima è un’amarezza che ci ricorda la nostra fallibilità, adorabile o detestabile a seconda dei casi, ma sempre meritevole di perdono. José e Nathalie si ritroveranno entrambi schiacciati da un grave senso di colpa, per essersi resi inconsapevolmente complici della morte di una persona: negarsi ostinatamente è, infatti, tanto rischioso quanto concedersi con troppo slancio.  L’incomprensione, a livello umano o culturale, è una barriera che chiude la strada al dialogo nella stessa misura in cui la apre al dubbio. Ed è una trappola in cui si può cadere sia nel tentativo di evitarla, sia nell’atto di superarla. Il film di Maggie Peren definisce, in maniera precisa ed efficace, i contorni del problema  che Babel, a suo tempo, non aveva saputo correttamente individuare: la diversità è anzitutto un’incognita che mette in luce la nostra ignoranza. La mancata conoscenza reciproca è un abisso che non si può pensare di aggirare chiamandosi fuori, né si può sperare di colmare con la semplice solidarietà.  Qualcosa ci lega all’altro, qualcos’altro ce ne separa, ed è impossibile sapere quali siano le vie che ci conducono a lui, e quelle che finiscono per aumentare la distanza,  aggravandola con il rimorso di avere stupidamente procurato ulteriore sofferenza. Coscienza ed incoscienza si sovrappongono in un gioco le cui regole restano perfidamente nascoste, rivelandosi soltanto quando è ormai troppo tardi. La superficie della realtà può apparire innocua, ma le sue viscere racchiudono inquietanti verità. Il colore dell’oceano è un bellissimo blu. E proviene dai cadaveri delle balene, che giacciono per sempre insepolti sul fondo del mare.

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