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Long shadows. Schattenwelt

Regia di Connie Walter vedi scheda film

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La recensione su Long shadows. Schattenwelt

di OGM
8 stelle

Un mondo di ombre. Di ombre lunghe, lunghe come il passato che non ne vuole sapere di scrivere la parola fine, perché continua a porre domande senza risposta, e a sfuggire alla verità. Gli anni di piombo sono ancora per, la Germania, un periodo oscuro, con il quale non sembra possibile chiudere i conti una volta per tutte. Con le azioni della Rote Armee Fraktion,  la rinata civiltà tedesca, appena risorta dagli orrori del nazismo, risulta lacerata da un’inspiegabile spirale di violenza omicida, che ripropone un’analoga forma di odio ideologico ed organizzato, e colpisce gli innocenti con la stessa lucida spietatezza. È soltanto il carattere minoritario del fenomeno, di cui si rendono colpevoli singoli soggetti ben identificati, a distinguere i nuovi crimini dai vecchi; e questa differenza fornisce un pretesto per estromettere, dall’analisi del terrorismo, la dimensione  storica  e sociale, demandando il compito della sua elaborazione alle coscienze dei pochi diretti responsabili. In questo modo il mistero rimane dentro alle anime di coloro che hanno materialmente compiuto quegli atti, disperdendosi in tanti drammi individuali, privi di un retroterra comune, e quindi costretti a vagare, ognuno per proprio conto, all’eterna ricerca di un senso.  In questa prospettiva si inserisce la vicenda di Volker Widmer, membro del commando che ha teso un agguato mortale ad un banchiere, uccidendo per sbaglio anche il giardiniere della sua villa.   Dopo ventidue anni di detenzione, l’uomo viene rimesso in libertà, e, al posto della sua vita, trova, attorno a sé, il vuoto determinato dalla  disapprovazione della gente, e l’oblio, carico di rancore, in cui l’hanno relegato la moglie e il figlio. Volker non ha più un posto in una società che vorrebbe dimenticare,  dato che non riesce a capire, e che in lui vede solo la personificazione di un inferno scatenato senza un perché. La solitudine del carcere prosegue nella prigione del  non essere nulla, e del non esistere  per nessuno. È come se la definizione di Volker come persona non potesse svincolarsi da quel maledetto ruolo di un tempo, e che ora, agli occhi di tutti, lo fa apparire come un disdicevole anacronismo. Gli abitanti del caseggiato lo respingono, a parte Valerie, l’inquilina della porta accanto, l’unica con cui egli riesca ad entrare in confidenza, fino a stabilire un vero e proprio rapporto di complicità. Ben presto si comprenderà il motivo di quella singolare eccezione: anche la donna è, infatti, legata a quel fatto di sangue, dalla scia del quale non è mai potuta uscire. I due si muovono all’interno di un canale esclusivo, che attraversa il presente mettendolo in comunicazione col passato, ed è unicamente da quest’ultimo che essi traggono le ragioni per agire ed i criteri secondo cui rapportarsi al mondo attuale. In entrambi continua a  vivere la rabbia di fondo, la propensione alla clandestinità e alla menzogna, così come  la sensazione di essere stati ingiustamente tagliati fuori dalla felicità, dall’integrità di un’esistenza normale, di  aver perso per sempre qualcosa di fondamentale, a causa di un male di fronte a cui si sono rivelati del tutto impotenti. Vittima e carnefice condividono lo stessa disperazione solitaria, causata dai tragici  e permanenti postumi di  un’epoca con cui la maggioranza ritiene di non aver più nulla a che vedere. La massa rimane sullo sfondo, in questo film avviluppato intorno alla mancanza di chiarezza su quanto allora sia veramente successo: una indeterminatezza che si trasforma in una convulsa lotta tra ciò che rimane dei due fronti di quella guerra sui generis: da un lato si trova chi ha sparato, e non ricorda più né come né perché, dall’altro chi è stato ferito, ed è incerto sul modo in cui rimediare al dolore.  Per entrambi, il percorso è un tortuoso vicolo cieco, che si contorce nella penombra della sospensione da ogni giudizio: una condizione che non risolve nulla, non si conclude né con la vendetta, né con il perdono, e di fatto sfugge di mano a tutte le persone coinvolte. È impossibile, anche a distanza di tempo, riprendere il controllo su una situazione che già in partenza, è stata da tutti, in qualche modo, subita, vissuta al di fuori della volontà cosciente, e a tutti ha procurato un’immane sofferenza. C’è chi all’epoca era un giovane in preda ad una irrazionale furia ribelle, chi invece era appena una bambina, e, in quanto tale, una testimone inconsapevole ed indifesa. Per entrambi, quegli eventi continuano a rimanere inafferrabili, e a possedere le loro menti e i loro cuori sottraendoli alla lucidità del tempo presente, alla logica dell’oggi, che pone al primo posto la gioia, la pace, la libertà, la spensieratezza. Il teatro del delitto, nel frattempo, è stato raso al suolo,  e su quel terreno  è stato costruito un grande centro commerciale: la vita di (quasi) tutti guarda avanti, ma per Volker e Valerie ogni cosa è ferma, congelata nello sfiancante grigiore della Germania in autunno. In Schattenwelt lo scenario è sbiadito, tinto di un colore pallidissimo, che sembra quasi un bianco e nero; e la luce è fredda e uniforme, come in un giorno diluito all’infinito, che non conosca mai il riposo della notte.

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