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Harvest (II)

Regia di Benjamin Cantu vedi scheda film

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La recensione su Harvest (II)

di OGM
8 stelle

A metà strada fra dramma e documentario, l’opera d’esordio del regista tedesco-ungherese Benjamin Cantu ci trasporta dentro l’atmosfera di stanchezza che, dal dopoguerra in poi, abitualmente circonda le nuove generazioni dell’Europa Centrale. Il film, girato nell’azienda agricola Der Märker di Jänickendorf, nel Brandeburgo – un ex collettivo della Repubblica Democratica Tedesca – racconta la quotidianità di un gruppo di giovani apprendisti, in buona parte provenienti da situazioni familiari e personali problematiche. Tra questi spiccano le figure di Marko, un allievo ormai prossimo all’esame finale, e Jacob, l’ultimo arrivato: tra i due ragazzi nasce subito un misterioso rapporto di complicità, che sboccerà in una vera e propria relazione amorosa. I due personaggi,  gli unici interpretati da attori professionisti, sono le figure centrali del ritratto, basato su una recitazione improvvisata, di una quotidianità vissuta in mezzo ai veri protagonisti di quella realtà di industriosa emarginazione: gli adolescenti e gli adulti che lavorano la terra ed i suoi frutti, rispettivamente imparando ed insegnando quell’attività che, col progresso e la meccanizzazione, è diventata complessa e richiede specifiche competenze. Marko è insofferente a tutti gli aspetti prettamente scolastici della faccenda, a cominciare dall’obbligo di preparare resoconti scritti sui vari processi produttivi. Non si reputa all’altezza del compito, ed il senso di inadeguatezza, sommato alle incertezze sul futuro, lo rende cupo, sfiduciato ed inquieto, animato da sogni ingenui che sa di non poter realizzare. Avendo alle spalle un padre assente ed una madre alcolizzata, quel giovane incarna il disagio esistenziale determinato dalle condizioni sociali, in un Paese non più soggetto ad un regime oppressivo, ma abitato da una democrazia che si paga con l’insicurezza e la disuguaglianza.  L’ambiente, funzionale alle esigenze dell’economia ma non sempre attento alle questioni umane, è lo sfondo sfuggente di una crisi che, per il singolo, si manifesta giorno dopo giorno,  attraverso gesti e parole che si sottraggono alla logica della routine, dell’efficienza, del perseguimento di obiettivi concreti, per lasciarsi deviare dall’impulso privo di ragione. Dietro questa dimensione creativa, soffusa ed arrabbiata, si intravvede lo spirito della nouvelle vague del realismo di stampo sovietico: è quell’intimismo rivoluzionario che si ribella silenziosamente, dimenticando la diligente coralità imposta dal sistema politico, per rifugiarsi in un individualismo fatto di lentezza, casualità, omissioni, distrazioni a cui ci si abbandona con la tristezza che scaturisce dal rifiuto di farsi inquadrare, per consegnarsi consapevolmente alla solitudine ed allo scetticismo. Il lavoro è il remoto scenario entro cui Marko e Jacob esistono, seguendo svogliatamente l’istinto che li spinge ad evadere dal gruppo e dalle sue prescrizioni, per rincorrere le ispirazioni del momento. È facile, negli spazi aperti della campagna, cogliere al volo spunti di libertà, occasioni di piccole fughe che salvano dall’uniformità del destino sancito dai percorsi predeterminati per legge. Marko e Jacob sono assistiti da vicino, in un clima di confidenza che coinvolge anche gli insegnanti e gli operatori del centro. Eppure troppo forte è, in loro, la voglia di inventarsi da sé una strada alternativa. Il titolo originale tedesco, Stadt Land Fluss – letteralmente, città nazione (campagna) fiume – ci introduce nel contesto agreste nel quale si svolgono i fatti narrati, ma è anche il nome di un gioco  di società, l’equivalente del nostro Arriva un bastimento carico di: una sfida a base di immaginazione, per costruire associazioni di idee e nuove possibilità di viaggiare, almeno con la fantasia.

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