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Le avventure di Tintin. Il segreto dell'Unicorno

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Le avventure di Tintin. Il segreto dell'Unicorno

di lorenzodg
10 stelle

Le avventure di Tintin. Il segreto dell’unicorno” (The Adventures of Tintin. Secret of the Unicorn, 2011) è il ventiseiesimo lungometraggio di Steven Spielberg. Per la prima volta il regista propone un ‘logo-vivo-cartoon-’ sui generis dove le sembianze visive, gli accordi algoritmici, le luci di fondo, le musiche tamburanti, i visi delineati e le movenze scenografiche si plasmano inconfondibili in un tourbillon a dir poco giocoso e sfavillante. Una tecnica sì, un recapito senz’altro, una provenienza di stile certamente, ma si deve dire che il glossario favolistico-avventuroso trova aperture e spiragli interiori (fra i personaggi ‘catturati’ nella ripresa emozionale) fin ad ora inesplorate (o quasi) e luoghi di sospettabile ilarità visiva. E sì, proprio in tal modo lo spettatore (chi scrive se ne compiace oltre misura) gode dello spettacolo, non inerme e affrancato, ma con un sorriso d’animo costante e un schizzo di fervore giocherellone ad ogni passo e in ogni pausa salutare. Niente di molto ma tutto di un po’ frastorna e disorienta in un chiosare continuo tra inquadrature post e ricorsi flash che si incrociano magnificamente tagliando lo schermo di gocce, lance, monete, vetri, suoni, lenti, ricordi e amnesie di qualsiasi mondo provengano (fantasia di bambino spielberghiana fino al midollo) e da che cielo piovano. Chi del regista di Cincinnati ha visto e rivisto ogni sua pellicola (e produzione) ritrova ne “Le avventure di Tintin” tutti i tic ancestrali e le ironiche nevrosi che ad ogni mattino di luce ciascun cineasta visionario ricuce e alimenta per sorbirsi un buon caffè (inwyskiato di dolcezza) e mangiarsi dei biscotti (immersi di bianco candore). Un film altamente cesellato di chiarori preserali e di noir pastosi, di colori arrossati e di quadri impressionanti; e di quanto esce fuori da una luce fiondante di chiari immersi in una sabbia-di porto con un veliero che inchioda lo sguardo di chi c’è e dell’isola che non c’è (per il momento e in attesa…).
Richiamo di tempi andati e di sogni in divenire, il regista riannoda i fili di una storia di arie consolidate in un fiume di suoni araldici e pensosi, tra le memorie dei tempi di un’Europa ancora da formare e le linee di contorno di un fumetto (confinato) che non trova vivi spazi da leggenda ma finte dogane con una corsa inconsueta e un cane che ne guida i gesti. Tintin di Hergé trova nella pellicola un richiamo di fondo e una forza delineata come omaggio sincero di un’artista amato e che di molti (troppi) uno specchio non ha visto. Il tono immaginifico e le corde commisurate dà credito alla genialità del fumettista belga che divenne figlio della sua stessa creatura (e del mondo vive) e di cui il paese ricorda la sua opera dedicandogli un museo (‘Le Musée Hergé’ di Louvain-la-Neuve) inaugurato dal 2009 (a oltre venticinque anni dalla sua morte avvenuta nel 1983).
La pellicola di Spielberg è da cogliere con commisurata delicatezza ma anche da vedere con entusiasmo fervore lasciandosi andare al messaggio in bottiglia (di un passato privo di facili contaminazioni) e a un itinerario di chiare allusioni pittoriche d’epoca in un groviglio di gitani avventurieri e pirati falsari. Tutto rimane sempre saporoso e zuccherato con diramazioni e cadenze autunnali fino ad un tesoro sepolto in mare (da tentazione fanciullesca e da scritti collodiani). Un tesoro da cercare e ad ora da trovare che alimenta il gusto di speranze perdute e di mari mai solcati. ‘Per mille balene’ ogni amico che trovi tienilo stretto e mai e poi mai chiuderlo nelle linee addolcite di un foglio piegato. Schiudilo per sempre e rendilo vivo fino a farlo conoscere a tutti: quello che merita il ‘ragazzo con il cane’ che rende giustizia all’arguzia e all’intelligenza di un curioso mondo fatto di grandi scoperte (visive).
Tintin, giovane reporter, all’acquisto di un modello di una nave ad un mercatino del paese viene subito circondato da personaggi poco raccomandabili che gliela vogliono sottrarre. Essa contiene un segreto importante e tra una corsa e un inganno il tremendo Sakharine riesce a sottraglierla. Il ragazzo non si dà per vinto e imbarcatosi (costretto dagli eventi dei suoi nemici) sulla nave del capitano Haddock (prigioniero e costantemente ebbro) riesce a conoscerlo per voler conquistare e scoprire il segreto dell’unicorno (i misteri si replicano in tre preziose piccole mappe) e nell’itinerario caleidoscopico di un’avventura senza fine e di un’amicizia (non richiesta) ma preziosa come non mai. Il tesoro e ciò che nasconde è ancora da cercare sul fondo di un mare sconosciuto.
Il sogno di ciascuno di noi va a braccetto con gli umori lontani di un cinema sconosciuto a molti che si cibava di maestria e di puro ardimento. Come non ricordare (oltre alle misure delle pellicole del regista di Cincinnati) i piatti che vengono serviti lungo il banchetto immaginifico: la partitura di David Lean (il deserto e le sue chiavi d’apertura), il fervore di John Ford (negli orizzonti sperduti dei personaggi), la vertigine di Alfred Hitchcock (nei titoli rimboccanti e nelle strade di fuga), il noir dimesso (nei segnali di un passo infervorato) e le onde schiumate di oceani mai abbandonati. Altresì il rimando a specifiche inquadrature di film del regista riecheggiano qua e là come dolci pennellate e zollette zuccherate di sogni ancora da raccontare. Da “L’impero del Sole” ai “I Predatori dell’Arca Perduta”, da “Hook” a “A.I.”, da “Lo squalo” a “E.T.”, il gioco spielberghiano punta e vince (in modo corretto) senza ingannare e per chi vuole entrare per lasciarsi trasportare dalle onde dei sogni del ragazzo col ciuffo, non perda tempo perché il treno è soffice (e la tristezza di rimando si schiuda da sola nel passato di oggi).
I personaggi “motion-capture” sono vivi e diretti e la recitazione nuova (non ne vogliano i super puristi) troverà negli attori (veri) un barlume (finto) di opera integrata e complessa. Le strade sono dischiuse e le immagini (pur nella tecnologia di oggi) trovano una forza intrinseca che rimanda a un cinema di ieri e a una modernità che mai (e poi mai) potrà inghiottirle e farle sue. Il cinema ridà senso a se stesso pur con nuovi mezzi e nuovi meccanismi: l’istrionismo si ferma davanti all’artigianalità della storia e ai segni dei volti (umani).
Meritano un elogio i titoli di testa con un gioco di nomi, sguardi e vite disegnate veramente superbi (un modo già visto in "Prova a prendermi") dove la pellicola integra sapori e stili di altre (molte altre) immagini.
Da ricordare che Tintin è ‘impersonificato’ dal bravissimo Jamie Bell mentre il capitano Haddock è dentro a Andy Serkis; invece Daniel Craig dirige il mondo di Red Rackham.
Di notevole misura il montaggio (del fido Michael Kahn) e la partitura musicale del collaboratore (da sempre) di John Williams.
La fotografia di Janusz Kaminski (alla dodicesima collaborazione con il 'director' di Cincinnati - da "Schindler's List" in poi) raggiunge cromatismi diversificati: magistralmente tenui e annuvolati e/o azzurri e ingialliti, per incesellare il mondo di Tintin nei vari ambienti (terra, aria, acqua) e nella vita 'neutra' e 'senza-forma' di storia vera nascosta dietro ogni orizzonte e paesaggio (dove i personaggi rimangono a vista e ne scoprono la distanza).
La regia di Spielberg è di classe sopraffina (impagabile ogni giro di vita sui personaggi e le loro fughe dallo schermo).
Voto: 10.
 
 
 
 

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