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Figli delle stelle

Regia di Lucio Pellegrini vedi scheda film

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La recensione su Figli delle stelle

di LorCio
7 stelle

Restando sulla storia in sé per sé, è indubbio affermare che sia originale. Quattro straccioni, rappresentanti del precariato sociale ed esistenziale di questo Paese allegramente sull’orlo del precipizio, si mettono in testa di rapire un odioso ministro per ottenere un riscatto utile alla povera moglie di un morto sul lavoro, ma si ritrovano tra le mani un povero ed onesto sottosegretario. Poi la vicenda si complica e non vi rivelo come. Insomma, un dramma? La manifestazione di un diffuso malcontento (il disprezzo verso tutta la classe politica) declinato sul registro dell’affresco socio-politico? Tutt’altro: Figli delle stelle di Lucio Pellegrini (il regista di quella delizia che fu, più di dieci anni fa, E allora mambo! e di una delle migliori fiction italiane degli ultimi anni, I liceali) è una smarrita commedia precaria che non di rado fa ridere, anche in modo abbastanza palese, anche per via di qualche trovata da cinema pseudo comico, finanche grottesca (in fondo tutta la vicenda si orienta sul grottesco più agrodolce).

 

Le ambizioni, seppur mascherate, sono alte, e non mi sorprenderebbe se qualcuno l’accostasse a certi elementi de I soliti ignoti (l’impossibilità di realizzare il colpo come piano prevede), L’armata Brancaleone (l’arrembaggio con cui procedono i membri del gruppo) o certa commedia all’italiana amarognola, e ce la potremmo cavare dicendo che il film è ben fatto, tiene l’attenzione, si concede qualche momento di riflessiva turbamento (già il fatto che il povero sottosegretario sia vittima del sequestro suscita tenerezza, ma non sono da sottovalutare la brevissima apparizione della madre di Pierfrancesco Favino – la solita, fantastica Lydia Biondi, capace di restare nella memoria anche per soli due minuti – e i fantasmi del passato del tormentato Paolo Sassanelli).

 

Ma il punto è un altro, ben meno superficiale di quanto si possa pensare: che Italia rappresenta Figli delle stelle? Non lo so. Perché alla fine rappresenta il populismo del dolore che si sfoga attraverso l’azione. E sta qui il dubbio: ma una generazione interrotta e rimasta ferma ad Alan Sorrenti e alle sue canzoni evanescenti (la scena in cui Favino e Sassanelli confrontano i propri passi di ballo è emblematica) può essere pronta a compiere qualcosa del genere, che nonostante tutto appartiene alla sfera delle cazzate, come ben dicono Favino e Fabio Volo in un passaggio? No, che non è pronta. Perché alla fine il sequestrato passa in secondo piano, diventa perfino mascotte, totem, cronista del fallimento, capace di mantenere anche una sorta di pudica dignità, affibbiando pure dei soprannomi ai propri “carnefici”: in primo piano passano le frustrazioni di una generazione senza riferimenti, senza passioni, senza emozioni, soffocata dal prodotto mediatico di Berlusconi (curioso come sia evitato qualunque allusione alla non-sinistra degli ultimi anni, curioso come l’ultimo riferimento pervenuto sia la rivoluzione culturale cinese) ed incapace di una economia sentimentale seppur spicciola.

 

Ne è la prova il personaggio della giornalista confusa ben delineato dall’ottima Claudia Pandolfi, esponente di quel mondo che deve scegliere tra carriera e famiglia, lavoro e amore, finendo per restare fregata. In soldoni, dietro la discreta riuscita del film, dietro la bella prova di un cast in cui nessuno sbaglia un colpo e dove meritano una menzione speciale l’eccellente Giorgio Tirabassi (l’amichevole partecipazione è un bel segnale di dedizione professionale ed emotiva) e il meraviglioso Giuseppe Battiston (i momenti comici sono tutti suoi), dietro tutto, resta il dubbio: qual è la morale? Che non agire potrebbe essere un perfetto modo per continuare ad essere indifferentemente insoddisfatti e contenti?

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