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Twelve

Regia di Joel Schumacher vedi scheda film

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La recensione su Twelve

di alan smithee
4 stelle

Dopo capisaldi di certa letteratura generazionale sullo sfacelo di una vacua gioventu' annoiata nell'euforia inconsistente e contagiosa dei primi anni '80, in particolare grazie all'opera di autori del calibro di Brett Easton Ellis e Jay McInerney, dopo almeno un paio di film che hanno saputo tradurre bene ("Le mille luci" di James Bridges con il divo piu' anni '80 che ci sia stato Michael J. Fox) o benissimo (Le regole dell'attrazione di Roger Avary) il disagio e il vuoto generazionale creatosi tra la gioventu' liceale dopo il crollo dei valori della famiglia tradizionale, cimentarsi nella trasposizione del romanzo omonimo di Nick Mc Donell (che pero' non ho letto e su cui dunque non mi pronuncio) era comunque un'impresa rischiosa, al limite dell'autolesionismo. Soprattutto se il regista coinvolto e' quel Joel Schumacher che in effetti ha spesso privilegiato, nella sua lunga e sfaccettata (ma pure altalenante, ora direi vacillante) carriera, le problematiche giovanili con film che non passeranno forse alla storia o, se lo faranno, sara' soprattutto perche' portavoci di una tendenza che di li a poco sarebbe dilagata nel cinema e nell'arte (penso a S.Elmo's fire ad esempio). Qui succede il contrario: il film appare decisamente fuori luogo e fuori tempo, altro che anticipatore. La storia del dealer dello sballo White Mike, bel ragazzo che non beve ne' si droga, dalla triste storia familiare che procura stupefacenti (twelve e' il nome della sostanza piu' in voga e micidiale) ed effimero piacere alla ricca ed insaziabile gioventu' di Manhattan, e' scandita oltretutto da una voce narrante (in originale di Kiefer Sutherland, gia' assiduo collaboratore del regista) davvero disturbante e fuori luogo, che rende penoso, ruffiano e stucchevole un testo che gia' non brilla per novita' ed idee. Il cast di attorini e attricette tutti bellissimi (o quasi) e vuoti come in una vetrina accattivante da guardare e poi scappare, e' solo in minima parte nobilitato dalla presenza flash di Ellen Barkin che vorremmo sempre veder coinvolta tanto ci piace, e da un Rory Culkin (fratello di quello che perdeva l'aereo) unico a meritarsi il titolo di interprete. In mezzo a tutto questo vuoto, fotografato da colori cosi' caldi da soffocare e da scenografie  pregne e finte degne del telefilm piu' trendy sul mercato, il regista di solida esperienza, pur se sempre piu' frequentemente sottotono, ne esce con le ossa rotte, dimostrandoci una volta per tutte che i tempi di "Tigerland" o di "Un giorno di ordinaria follia" sono ormai forse definitivamente decorsi, e che l'attivita' di regista e' ormai per lui pure mestiere su commissione. Nulla di male in tutto cio', basta saperlo e ricordarcelo, visto che i ritmi di produzione dello Schumi sono sempre piuttosto fitti e ricorrenti.

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