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Pietro

Regia di Daniele Gaglianone vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Pietro

di ccbaxter
6 stelle

Invogliato dalla recensione di Film Tv sono andato a vedere “Pietro” di Daniele Gaglianone, e devo dire che non condivido affatto l’entusiasmo quasi intimidatorio del critico Giona A. Nazzaro. “Pietro” grida la disperazione di un disadattamento, di un’impotenza, che, così com’è, fa una fatica improba ad arrivare a qualcuno, ammesso che ci riesca. Che sia la forte identificazione col suo film ad avere accecato l’autore? “Gaglianone sta con Pietro” – scrive Nazzaro. No: Gaglianone è Pietro, come del resto lo stesso regista ha sinceramente confessato al pubblico di Locarno: nella rabbia del suo protagonista, nella voglia di essere amato, c’è la profonda solitudine di un talento registico che malgrado la stima degli “happy few” ha soverchia difficoltà a trovare finanziamenti e a raggiungere il pubblico. Per carità, capisco che è un’impresa calibrare l’equilibrio tra il sincero orrore che si prova per il degrado dei tempi, la volontà di dar voce ad una umanità sofferente, e il modo di esprimere tutto questo scuotendo per giunta l’indifferenza di una platea abbrutita e intronata che dovrebbe non soltanto riflettervi sopra ma anche risponderne. Oltretutto oggi! Con ‘sti chiari di luna! È anche vero però che l’autore de “I nostri anni” si guarda bene anche solo di azzardare un tentativo di rispondere a un compito così difficile: tira dritto per la sua strada e chi non lo ama non lo segua. Che è poi il problema che sembra affliggerlo. Dunque a cosa ci attacchiamo noi pubblico? Non certo al racconto, assai prevedibile nel breve arco di sviluppo; non ai personaggi appena abbozzati – dal protagonista “borderline”, col quale è sempre difficile identificarsi – alla ragazza che questi incontra, liquidata come mera funzione. Così i “mostri” che li circondano: tutti aguzzini, tutti crudeli, monodimensionali epifanie d’una metafora – questo solo giustifica la sommarietà della drammaturgia – che mette i brividi. Non tanto, come scrive Nazzaro, perché atroce incubo dei peggiori anni della nostra vita (forse della sua, per me lo sono stati gli anni ’70, dove la gente si sparava per strada!) ma perché in essa siamo assunti tutti, e tutti quanti ci sentiamo oggetto dello stesso odio. Io comprendo che Gaglianone soffra “i suoi anni” in modo lancinante, come molti di noi del resto, da cui la caparbia volontà di mostrarceli senza infingimenti e senza compromessi ma bisogna anche dire che il finale sorprende più per quanto suoni artificioso (“che tutti siano cattivi e disumani farà si che anche Pietro diventi cattivo e disumano” è il cerchio che giocoforza deve chiudersi!) che per la cupa volontà di essere rigoroso e spietato fino alla fine. In questo caso paradossalmente più con chi condivide o semplicemente solidarizza col disadattamento, e vede il film, che con chi dal film si tiene a debita distanza e per questo, sembra suggerirci l’autore, si meriterebbe una bella coltellata. Problemino espressivo ed ideologico (o ideologico che diventa espressivo) di non secondaria importanza che però non tocca affatto il critico, più preoccupato, mi sembra, a sospingere con altrettanta rabbia dei volonterosi nelle poche sale rimaste aperte che ad azzardare un’analisi che peraltro sarebbe necessario qualcuno facesse se ha a cuore un regista così promettente. Bastano le pagine di cinema più felici (la scena della fontana, per esempio) a indurre a credere che se Gaglianone fosse meno prigioniero di se stesso forse non sarebbe uscito dal festival di Locarno così “a coda di pesce”, come purtroppo è avvenuto. Ma il gesto d’artista in grado di guardare in faccia “il nostro Paese e cosa siamo diventati” non è riuscito: è un colpo a vuoto che mette tristezza anche per questo, perché un sistema come quello del cinema, proprio perché omologatissimo, ha bisogno di outsider dell’anti-omologazione: bisogna essere bravi, molto bravi, bravissimi! Dei geni! E non farselo dire da chi i geni li tiene in gran sospetto. A questo proposito trovo davvero singolare, e forse un altro segno dei tempi, che tra tutti i paragoni fatti – De Sica (mai assunto come termine negativo: ma che bella novità!), Fassbinder (il negletto), Antonioni (altro negletto), (il solito) Rossellini, persino “Io la conoscevo bene” (sic!) – sia sfuggito al recensore il film che più assomiglia a “Pietro”, e cioè “La strada”. Forse perché il capolavoro di Fellini fu odiato dalla critica per le stesse ragioni “umaniste” e “confessionali” che Nazzaro esecra in De Sica? Che poi probabilmente siano anche la quintessenza per cui ancora oggi il film riesce a sorprendere e commuovere, a differenza di “Pietro”, questo importa meno: il correttivo dell’ “idiot savant”. Non si vuol dire che Gaglianone dovrebbe appellarsi alle stesse categorie, ma visto che reinventa il “dolente patetismo desichiano” dovrebbe almeno cercare di non smarrirne l’efficacia, non si vuol dire il senso dello spettacolo, per carità: potrebbe suonare bestemmia! Certamente fa pensare il tempo che è passato da allora, e quante cose sono cambiate. Oggi, per capirci, Gelsomina non morirebbe per salvare Zampanò: lo trapasserebbe da parte a parte con un coltellaccio! 

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