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Noi credevamo

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Noi credevamo

di spopola
8 stelle

Non ho taciuto né risparmiato nulla. Infanzia, gioventù, famiglia, amicizia, le mie responsabilità e quelle degli altri. Le ho passate al setaccio e non ho rintracciato l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che abbiamo tessuto senza volerlo (…) Ma io non conto, eravamo in tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla  quando ne uscivamo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… (Anna Banti, Noi credevamo, Mondadori, 1967)

 

Un grande affresco antiretorico che gronda sangue, un susseguirsi infinito di tradimenti, di errori e persino di orrori: questo è il Risorgimento secondo Mario Martone messo in scena con Noi credevamo…, straordinario apologo che parla del passato ma con lo sguardo impietosamente rivolto al presente che il regista costruisce come una struttura complessa che si regge tutta su corrispondenze interne fatta di rimandi e di ritorni senza mancare però di gettare ogni tanto rapide occhiate verso l’esterno ed il futuro. Quello che ci viene rappresentato potremmo definirlo allora un trattato sulla “filosofia della storia” e il suo divenire, con quel tormentato rincorrersi di idealismi truffati dalle leve del potere e di uomini che si aggirano delusi e spaesati fra le nebbie della storia (o peggio ancora tra le sue rovinose macerie) privati persino della speranza, perché a loro, a quelli che sono sopravvissuti o sono venuti dopo, è rimasto soltanto il doloroso stupore  della disfatta fatto di solitudine profonda e di disillusione.

Tutte le azioni politiche, le sommosse,  persino le ribellioni individuali  che il regista mostra nel suo percorso ricostruttivo dei fatti (che vuole essere soprattutto la registrazione documentata di una sconfitta storica, di classe, delle attese, delle aspettative, di quell’aver ritenuto possibile un futuro migliore, di un qualcosa insomma che si riflette sinistramente su quello che  è venuto dopo, fino all’oscuro presente che stiamo vivendo ogni giorno), sono amaramente fallimentari  o  ardimentosamente insensate, e non c’è molto spazio per il “positivismo” anche eroico dei libri di scuola, tenuto volutamente sempre fuori campo o espresso in sottotono, pur rispettando  la “verità” degli accadimenti perfettamente inquadrati nel tempo e nel tessuto sociale in cui si sono verificati (Garibaldi per esempio non si vede mai, e non  c’è per nessun personaggio alcuna esposizione retorica tipica dei  santini agiografici, nemmeno per Mazzini e Cavour o per il più discutibile Crispi dalle mille facce, che ci vengono qui raccontati non certo come “figure iconografiche” unidimensionali da mettere in cornice, ma come persone reali, con i loro eccessi e le loro illusioni, i dubbi, le contraddizioni, persino con  le ambiguità, gli opportunismi e le ipocrisie che ciascuno di loro si è portato dietro). C’è poi – ed è straordinario -  il contrappunto costante dell’andar via “per far l’Italia” e del tornare indietro quando l’Italia è stata ormai già fatta, monarchica però e non repubblicana.

 

Il film è interamente costruito su materiali storici - è Martone che parla  -, i personaggi e gli avvenimenti descritti, si basano oltre che sul libro della Banti, su lettere, scritti e documenti soprattutto d’epoca. L’ispirazione per questo lavoro però viene dal presente.

E’ stato  il mio smarrimento personale, il desiderio di capire meglio la realtà che mi circonda a guidarmi verso questa storia. Desideravo mettere lo spettatore in condizione di individuare  un rapporto con il nostro presente, creando una sorta di ponte  senza però strizzare l’occhio all’attualità. In questo senso, l’Ottocento che  proponiamo non è stato tanto ricostruito quanto piuttosto “ricavato” nel (e dal) nostro presente.
Le teste mozzate dell’inizio, si congiungono dunque  idealmente con i cilindri e le tube, con le barbe azzimate dei membri di un parlamento deserto dove si è consumato l’ultimo tradimento nella sconsolata conclusione che è la sconfortata sintesi e il vero colpo di genio dell’opera. 

E giustamente allora il film si presenta come una sorta di controcronaca  di un momento (e un  movimento) fra i più miticizzati del nostro passato, imperniata però volutamente sulle pagine meno conosciute e sulle trame più oscure e solo parzialmente divulgate (mentre i fatti  più eclatanti  si percepiscono come di riflesso, quasi in controcampo): questa è la prospettiva scelta dal regista, rappresentare il tutto privilegiando però  eventi che dentro un’ambientazione storica perfettamente definita, potrebbero essere considerati secondari (o  – molto più allusivamente – persino “collaterali”),  soprattutto quelli  - e sono tanti - che non offrono certo una visione molto edificante di quell’esperienza che è stata fondamentale per l“unificazione” di questa nostra Italia disastrata.

Sappiano bene (basterebbe per questo rispolverare le nostre memorie studentesche) che nella pubblicistica più diffusa, ma anche nell’immaginario collettivo, il Risorgimento è identificato come l’eroica lotta di un popolo contro la tirannia dominante dello straniero. Il coraggioso Martone  (coadiuvato da De Cataldo che ha collaborato magnificamente alla stesura di una sceneggiatura molto stratificata) ha deciso invece - come ho già osservato sopra - di lasciare da parte questa prospettiva positivisticamente trionfalista, e di partire da un’angolazione visiva più realistica e certa, mostrandoci al contrario come il processo contraddittorio e complesso che portò l’Italia a diventare uno Stato sovrano, sia stato invece segnato da violentissimi contrasti politici e ideologici anche all’interno dei diversi gruppi di patrioti, e dall’incapacità di superare – allora come adesso - le tante divisioni rimaste purtroppo senza soluzione, che hanno poi portato come conseguenza l’inevitabile scollamento fra  speranza e realtà che avvertiamo ancora.

Il sentimento forte che emerge chiaramente al termine della visione del film è dunque  di estremo disagio, un disagio che nasce  proprio dalla constatazione oggettiva che seppure il progetto anelato (l’unità della nazione), alla fine fu  realizzato (solo “teoricamente” però, si potrebbe dire, viste le idee secessionistiche che ancora oggi serpeggiano con prepotenza), ciò avvenne in una dimensione decisamente fallimentare e che  proprio da tale fallimento (ideologico e comportamentale) sono scaturiti, si sono sviluppati e hanno preso vigore, molti dei problemi  irrisolti che si sono riproposti anche nel presente, dopo aver attraversato ammorbandola, tutta la società italiana del Novecento.

Per Martone insomma la storia non è il mito, rappresenta certamente la “memoria”, ma ha bisogno di essere (ri)strutturata per poter essere poi riproposta  in maniera dialettica, partendo certamente dai “vincitori” (non se ne può mai fare a meno) ma concentrandosi  soprattutto sui “perdenti” che meglio consentono di  guardare davvero in faccia e fino in fondo la realtà, che è forse anche l’unica maniera disponibile per sollecitare un confronto costruttivo che può aiutare a stimolare  un’analisi strutturale delle cose senza infingimenti. Ed è per questo allora che come contrapposizione oggettiva alle incrostazioni di un dannoso “celebrazionismo”, con questa sua opera Martone ha preferito darci  una versione  più radicale e repubblicana di quell’Italia umbertina gretta e meschina  in cui il fallimento rivoluzionario che riguarda tutta la nazione, è unito alla sofferenza dei meridionali che quel fallimento l’hanno dovuto subire più di tutti gli altri e soprattutto sulla propria pelle.

La visione  abbastanza pessimistica del regista, prendendo le mosse dal romanzo di Anna Banti che come si è visto offre però solo alcuni degli spunti principali oltre a uno sconfortato disegno generale delle cose, descrive così un movimento storico che non solo non si è realizzato a partire dal basso, (inteso non soltanto in senso geografico e culturale, ma anche e soprattutto in una prospettiva socioeconomica e classista),  e che forse proprio per questo ha finito addirittura per  esasperare i problemi connaturati al farsi dell’Italia, rimasti tutti sostanzialmente senza soluzione. In questo senso, Noi credevamo è piuttosto esplicito: la storia è di ieri, ma i riferimenti all’attualità, o comunque a un passato prossimo che sinistramente si riverbera anche sul presente, sono numerosi e ricorrenti, non solo nella riflessione etica e morale che viene fatta sulla necessità (e sull’opportunità) di utilizzare la violenza come arma politica, ma anche nella esplicazione visiva delle cose per evidenziarne i “paralleli”: abbiamo lasciato molte altre tracce in giro, ma ci sono tre momenti nel film – ed è ancora Martone ad indicarlo – in cui  ho deciso di far riemergere con prepotenza  la nostra modernità per farla meglio percepire allo spettatore e rendere così più esplicito il mio discorso: quando Crispi riceve la bomba dalle mani di Orsini (ambientando la scena in un garage); utilizzando il carcere di Saluzzo che è stato un penitenziario di massima sicurezza che ha ospitato dei brigatisti per farne la prigione dove vengono incarcerati  alcuni patrioti risorgimentali; soprattutto e con maggiore evidenza, nell’ultimo episodio, quando sulla costa del nostro Sud si vede chiaramente lo scheletro di un mostro ecologico, un emblema della speculazione edilizia odierna ed un preciso segno di quanto male siamo in grado di fare ancora alla nostra terra. E sono proprio quegli spezzoni arrugginiti protesi verso il cielo che diventano quasi fantasmatiche presenze e assumono il senso di una straordinaria simbologia, che proietta in avanti fino nel futuro i  protagonisti superstiti, come se nell’attraversare l’Italia li si ritrovasse alla fine al cospetto degli esiti della loro storia futura (Emiliano Monreale), a fare i conti anche con la distruzione ambientale del presente.

 

Il taglio del film è meridionalista, non perché meridionali sono i tre protagonisti però (o non solo per questo, almeno). E’ la lettura storiografica delle cose che impone una prospettiva  inevitabilmente sudista, che parte “necessariamente” da un Sud già martoriato che l’arrivo dei Savoia depredò definitivamente di ogni attività produttiva, imponendo tasse e servizio militare obbligatorio, fino alla reazione cruenta del brigantaggio. L’opera muove dunque dal sud e da lì comincia il suo percorso. Le prime immagini si collocano nel 1828, quando la repressione borbonica contro gli insorti cilentani instilla nei tre protagonisti l’afflato libertario che porterà alla loro affiliazione alla Giovane Italia. L’insurrezione non è dunque solo un riferimento necessario per comprendere le ragioni di un vissuto personale, ma è soprattutto - e molto più sottilmente - la messa in scena di un particolare procedimento narrativo, che avanza per risonanze e rimbombi, e trova il suo centro d’equilibrio in Domenico (Alessandro Mallamo), il principale filo conduttore dell’intera storia.

Martone riesce infatti ad illustrare altrettanto bene anche  il dissidio evidente tra i patrioti borghesi e quelli aristocratici che passarono molti anni nelle galere borboniche o in esilio, e ad evidenziare con qualche accenno ed altrettante poche scene,  il ruolo  arrovellato di Mazzini, le sue effimere azioni votate al martirio e il suo profondo settarismo.  Seppure con qualche negatività, non lo dipinge però come un terrorista  (cosa che invece nel tempo qualcuno poi si è spinto a fare):  non lo legge mai in quella prospettiva,  che  invece riserva al Francesco Crispi di prima della “conversione”, un  Crispi su cui  per ragioni pratiche e di convenienza, la storia dell’Italia ha preferito mettere molti fondamentali omissis  e censure, evitando scientemente di parlare del suo più che probabile (anzi quasi certo) coinvolgimento (che Martone al contrario suggerisce in maniera  decisamente esplicita) nel ruolo attivo avuto quale negativo complice di Felice Orsini nell’attentato a Napoleone III che fece molti morti  fra i civili,  per lui quasi un necessario, indispensabile atto per propagandare e rendere visibile la sua personale  guerra di liberazione e non  un sanguinoso “attacco”  terroristico come fu definito dai francesi (anche i fascisti di Salò chiamavano sprezzantemente terroristi e banditi i partigiani della resistenza, questo dovremmo ricordarlo molto bene).

C’è poi in filigrana  - come già in Senso  di Visconti – la forte e chiara percezione del tradimento delle classi dirigenti,  dal “tirannicchio” Carlo Alberto di casa Savoia,  alla sinistra storica di Crispi che arriverà al potere, che sono poi le stesse élite egemoni dalle quali il padre mette in guardia  Salvatore: I signori fanno i Giacobini a Parigi ma rubano l’olio ai contadini nelle loro terre. Chi nasce contadino tale resta. Non ti immischiare con loro.  (Salvatore però sordo al consiglio, si immischia invece e non rispetta il suo ruolo di classe subalterna, e poi finisce male per davvero, perché il sospetto dei patrioti, come insegnano tutte le rivoluzioni, è peggiore della più bieca repressione del potere e lui non può che farne le spese, pagando con la vita). Il tema del tradimento torna ossessivo più volte, ma diventa difficile capire “chi ha tradito e cosa”, se non nella visione finale in parlamento che fa esplodere e libera l’ultimo sentimento possibile, quello della rabbia, della sete di giustizia, della tensione  morale e politica che è venuta meno… e sono proprio le parole pronunciate dal disilluso Domenico che risuonano cupe e accusatorie, a rendere chiarissimo il senso più profondo dell’ispirazione del regista che provocatoriamente  guarda  in avanti e in maniera  tutt’altro che velata, riportando prepotentemente in primo piano due questioni  nazionali spesso congiunte e mai completamente debellate, quelle della mafia e del terrorismo e delle loro commistioni col potere.

Noi credevamo allora, o meglio “l’altra verità”, quasi una didascalica lezione sul vero volto del Risorgimento (e arriviamo così  ad evidenziare il “limite” che qualcuno – anzi, molti più di “qualcuno” -  ha voluto ravvisare, criticando pesantemente la realizzazione pratica del progetto, il suo “assomigliare”, inteso come “sembrare” , “essere assimilabile”, a uno sceneggiato Tv (per altro sua effettiva destinazione primaria, visto che il progetto è stato prodotto dalla Rai proprio per il piccolo schermo). Ma lo snobismo di certi critici “distratti” (o in evidente malafede) e con la memoria troppo corta, non deve far dimenticare anche a noi, proprio come hanno voluto fare loro, il progetto umanistico già in passato sperimentato e portato avanti con passione da autori quali Cottafavi per esempio, e sviluppato soprattutto da Rossellini, che avevano  affrontato in tempi non sospetti e nella giusta prospettiva, il problema semantico che la televisione pone al cinema anche come differenza strutturale e stilistica di approccio e di costruzione,  che ha come tema centrale quello della comunicazione, della condivisione del sapere e della sua divulgazione su più vasta scala che è sempre da priorizzare sopra ogni altra questione e che per questo richiede un linguaggio più esplicativo e comprensibile. Perché l’opera di Martone si pone proprio su quella scia:  è un cinema che “insegna” esattamente come quello del Rossellini didattico, e che per questo suo fine non si perita, al fine di esporre meglio la sua tesi, di percorrere una strada  “realisticamente”  pedagogica nella migliore tradizione dei Gramsci o dei Salvemini. Il suo sguardo è dunque prevalentemente concentrato sulla necessità di mostrare i difetti  (i “guasti” sarebbe più opportuno definirli) di una rivoluzione  rimasta  incompiuta e a mezza strada… ed è così che il presente irrompe prepotente nel passato (l’Italia di oggi è gretta, superba e assassina…) con una forza che è paragonabile all’effettiva, prioritaria urgenza del progetto, perché è proprio l’albero piantato con le radici malate amaramente ricordato da una stanca e in parte sconfortata Cristina di Belgioioso  questa nostra “brutta” Italia in cui viviamo.

 

La verità  del Risorgimento  prende vigore però anche nel movimento sinfonico (e tutto cinematografico) imposto alla struttura, che ha proprio il  peso (e il senso) di una partitura orchestrale con più strumenti a fare da solisti  (i vari protagonisti di volta in volta in primo piano) in un film che ha un andamento molto musicale che passa da personaggio a personaggio, scivola e scompare sotto terra come l’olio, e dove proprio  la verità è detta traditrice e viene accoltellata perché inascoltabile, e allora si fa muta, come la madre di Domenico, che non parla da quando il notaio, figura cardine della burocrazia di stato, ha confiscato le terre della casata, e alla fine diventa una spaesata circostanza  terrorizzata come i familiari dei contadini uccisi e quasi si disperde (la famigerata legge Pica promulgata dal parlamento piemontese per arginare il fenomeno del brigantaggio nel Meridione  che prevedeva la sospensione dei diritti civili e anche l’arresto, ai briganti riconosciuti tali o uccisi, e a coloro che li appoggiavano o li avevano aiutati nelle loro azioni).(Alessandro Mallamo).

Il procedimento  scelto dal regista è  giustamente brechtiano in molte parti, nel senso che volutamente destabilizza il basamento emozionale e concettuale  per fare meglio ragionare il cervello dello spettatore, ma recuperando l’empatia della partecipazione ugualmente importante e necessaria, attraverso il particolare utilizzo di una strepitosa colonna sonora che intona la sinfonia delle immagini e non permette allo spettatore di adagiarsi nella riflessione (ancora Mallamo) senza essersi prima emozionato un poco.

Mario Martone come ben sappiamo, nasce in teatro, e qui si  percepisce molto bene (uno dei suoi film più belli che non mi stanco mai di ricordare, è proprio Rasoi  che fu traslato in immagini cinematografiche direttamente dal palcoscenico, senza dimenticare l’esperienza più personale e privata di ricerca e di documentazione  fatta successivamente con il suggestivo Teatro di guerra, altro titolo fondamentale della sua filmografia). Al pari di Visconti, è uno dei rari esempi che riesce ad essere ugualmente grande sia in teatro che in cinema, e che non sbaglia un colpo nemmeno quando affrontata il più spinoso mondo del teatro lirico (la sua rilettura delle trilogia DaPonte/Mozart ha avuto esiti felicissimi, come le sue incursioni nel moderno - la Lulù di Berg e l’Antigone di Ivan Fedele presentata al Maggio Musicale di qualche anno fa - o nel crudo verismo aggiornato alla contemporaneità del  recente dittico scaligero di Cavalleria Rusticana e Pagliacci,  senza dimenticare le preziose intuizioni con cui ha affrontato Rossini o gli imperdibili appuntamenti  Verdiani  densi di spunti e di suggestioni di Un ballo in maschera, dell’Otello e del Falstaff), un terreno minato dove molti anche fra i “maestri più acclarati” hanno fatto invece cilecca, segno evidente di una eccellente sensibilità e competenza musicale, certificata con ammirato calore  da Roberto Abbado, che ha collaborato con lui insieme a Cesare Mazzonis e Michele Dall’Ongaro per la messa a punto della parte operistica  delle musiche di scena di una colonna sonora che contribuisce con singolare efficacia  a farci sprofondare nel male di una tragedia che comincia nel  Sud come si è detto, ma  per espandersi poi nell’intera penisola e  persino oltre le frontiere.

Martone ha probabilmente pensato a Visconti e a  come era riuscito a coniugare il Trovatore di Verdi con la musica di Bruckner in Senso (ha tenuto certamente conto del film e  del regista  anche per la bellissima scena nel teatro che ha richiami evidenti e calcolati pur se in una differente prospettiva) e ha costruito qualcosa che proprio da lì sembra volersi dipanare, ma in maniera assolutamente autonoma con inediti effetti e soluzioni di straordinaria efficacia.

Spezzoni narrativi pensati  dunque anche come “atti” teatrali, a loro volta sorretti da quei precisi  movimenti musicali a cui accennavo sopra, che fanno diventare la pellicola  una specie di sinfonia in quattro sezioni ben distinte: nella prima - un allegro “en plein air” (un “allegro ingarbugliato”, lo definisce Emiliano Monreale) a tratti quasi di ispirazione macchiaiola - i tre protagonisti (gli aristocratici Domenico e Angelo e il contadino Salvatore) affiliatisi alla Giovane Italia di Mazzini, salgono dal Cilento  a Torino e poi fino a Parigi; nella seconda, un “adagio” claustrofobico quasi brechtiano (dove Domenico, finito in carcere,  discute del Paese con Carlo Poerio e altri patrioti)  che rappresenta il cuore speculativo dell’opera,  quello dove ci si interroga  se l’Italia debba essere monarchica o repubblicana, meridionale o piemontese, nella nota dialettica  dei due Risorgimenti (Mazzini contrapposto a  Cavour), una divisione che si è ripresentata immutata e contrapposta in tutte le forme che la nostra storia successiva ha conosciuto, passando ovviamente attraverso fascismo e antifascismo per arrivare fino ai giorni nostri (dice ancora Martone aprendosi al presente). Nella terza sezione – un fosco e concitato “presto” metropolitano - Angelo partecipa all’attentato contro Napoleone III preparato da Felice Orsini, mente la quarta che vede l’unità d’Italia già compiuta, è un “lento” che si consuma nei perturbanti interni del potere fra riciclaggi e trasformismi (Alessandro Mallamo).

Da quanto ho sopra esposto (utilizzando anche gli altrui pensieri, come quello di Mallamo, appunto) si rileva dunque che benché cinematografico in senso pieno e lato, il film può essere letto anche in chiave prettamente melodrammatica e teatrale (e qui ritorniamo alla partitura musicale di accompagnamento che è quasi un melodramma operistico a se stante, privato però delle parole anche per qui brani che in effetti sono invece  “cantati” sulla scena (l’unica eccezione è il Verdiano Pietà Signore interpretato da Michele Pertusi tratto dall’Otello) che utilizza tantissimo Verdi (soprattutto  quello del periodo più cospirativo  dell’Attila, di Ernani, dei Masnadieri e di Macbeth) ma anche  l’introduzione sinfonica a Ella giammai m’amò dal Don Carlo che  è del 1867 e quindi “posteriore” (quasi a voler rappresentare il “dopo”)  che torna spesso  con andamento quasi circolare a creare gorghi di carattere ipnotico (Daniele Manin sul Corriere della Sera), sapientemente intercalato da brani dall’Elisabetta regina d’Inghilterra di Donizetti e dal  Guglielmo Tell di Rossini.

Straordinaria la resa degli interpreti: evito di citarli dettagliatamente perché l’elenco sarebbe troppo lungo. Li unisco allora tutti insieme, con Valerio Binasco e Luigi Lo Cascio in prima fila, per tributare loro un meritatissimo, fragoroso e prolungato applauso per la bella prova offerta.

Per concludere allora e sintetizzare un po’ il giudizio che da parte mia è incondizionatamente positivo, Noi credevamo è un film che gioca le sue carte migliori proprio puntando su una narrazione al tempo stesso epica e melodrammatica, ma  molto attenta  anche alla puntale descrizione dei dettagli.

Raccontando splendidi esempi di rigore morale e di vile opportunismo, slanci ideali e disillusioni politiche  fra spirito di sacrificio e pulsioni omicide,  Martone lavora su più piani quasi come fossero dei cerchi d’acqua che, concentrici, si stringono intorno al protagonista in un processo narrativo all’inizio un poco frammentato, ma che si ricompone progressivamente  come in una sorta di mosaico che mette al loro posto i molti personaggi “reali” e quelli nati dalla fantasia degli autori per generare quel magnifico affresco citato in apertura, una specie di “ricomposizione mnemonica della storia” che chiede giustamente anche lo sforzo dello spettatore (quasi una  “sfida” con la propria conoscenza culturale delle cose) che merita davvero di essere compiuto senza esitazione (attingendo se necessario anche ai ricordi dei libri della scuola) perché l’impegno e l’attenzione (che sono indiscutibilmente necessari e devono essere mantenuti vivi e presenti per l’intera  durata della visione, senza pause o rallentamenti) valgono davvero la candela e alla fine sono ripagati ampiamente da ciò che ci rimane dentro che ci fa sentire più preparati e coscienti, e per questo persino un pò “migliori”.

 

Diviso in episodi (esattamente quattro, come si è visto) il film aveva in origine la durata complessiva di tre ore e venti, ridotte  a una durata di circa 2 ore e 45 minuti con un taglio complessivo di oltre 35’  per la distribuzione in sala  (purtroppo nemmeno il DVD uscito nel frattempo ripristina la versione integrale, ed è a mio avviso una gravissima omissione). Ugualmente strutturato in quattro ben distinti movimenti, (dove sembra che sia il primo quello che ha avuto le più pesanti amputazioni) racconta nei corrispondenti episodi in cui si articola, quasi cinquant’anni di storia italica, dai moti rivoluzionari del 1828 nel regno borbonico delle Due Sicilie ai fatti dell’Aspromonte del 1862, seguendo le vicissitudini pubbliche e private di tre giovani patrioti, Domenico, Angelo e Salvatore, tre storie immancabilmente destinate ad una tragica conclusione.

Nel clima di sospetti e paure che segnò le cospirazioni dell’epoca infatti, Salvatore scambiato per una spia viene ucciso da Angelo, il quale a sua volta si troverà coinvolto nell’attentato di Felice Orsini contro Napoleone III, e finirà per questo ghigliottinato in Francia.

A Domenico è riservato tutto un intero segmento sospeso e rarefatto, quello della sua reclusione nel carcere borbonico, dove la detenzione sembra far pensare che non ci sia più un fuori. E mentre le guardie borboniche danno il via a una vera e propria guerra psicologica per fiaccare le coscienze, i detenuti, fra cui Carlo Poerio  e altri noti repubblicani, continuano a tramare da dentro, a decidere,  a leggere, a resistere fino a rifiutare la grazia, dimostrando così che il carcere è ovunque, perché in una realtà politica basata sulla coercizione, non esiste un dentro e un fuori, ma solo la priorità di preservare la propria dignità e gli ideali ad ogni costo e nonostante tutto

E sarà proprio Domenico, che dopo aver trascorso quel lunghissimo periodo di detenzione, sfiancato ma non domato, vedrà davvero l’alba della nazione finalmente unità, finendo però per assistere sconsolato alla guerra fratricida fra esercito e garibaldini sull’Aspromonte, testimone impotente delle violenze dei bersaglieri nei confronti dell’inerme popolazione del Cilento che termina con una sequenza che rimanda specularmene a quella iniziale, con la sola differenza che “allora” gli autori dell’insensata repressione, erano i soldati borbonici, mentre in quella conclusiva , è l’esercito italiano a macchiarsi di altrettanta infamia, quasi a voler significare che nonostante la raggiunta unità della Nazione, nulla è cambiato, anzi è addirittura peggiorato un poco (il che apre  magistralmente le porte  allo sconsolatissimo finale nel parlamento già ampiamente dibattuto prima… Noi, dolce parola. Noi credevamo…).

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