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Nightmare detective 2

Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film

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La recensione su Nightmare detective 2

di UjiOgami
6 stelle

A due anni di distanza dal primo capitolo, Tsukamoto torna a mettere in scena il suo “detective dell’incubo”, sempre interpretato da un Matsuda Ryuhei che lavora di sottrazione, unico personaggio in comune con il precedente capitolo. La cifra stilistica rimane invariata ma le tematiche affrontate e la struttura narrativa presentano numerose differenze.

In questo capitolo infatti ci si concentra molto di più sul personaggio del detective Kyoichi; la sua infanzia e le paure che ne sono scaturite; una madre spaventata da qualsiasi cosa che finisce col vedere nel figlio la causa dei suoi mali cercando più volte di ucciderlo, prima di impiccarsi lei stessa. Incubi/ricordi che tormentano Kyoichi ogni notte e che sono alla base del suo comportamento apatico e asociale, tanto che quando si presenta a lui una nuova “cliente”, la studentessa Yukie (Miura Yui), la manda via in malo modo, per poi reinteressarsi a lei quando si accorge che Kikugawa (Kan Hanae), la ragazza che tormenta nei sogni Yukie e due sue amiche per essere stata maltrattata, ha più di un tratto in comune con la personalità della defunta madre del protagonista.

Come si diceva, la cifra stilistica rimane inalterata; la fotografia presenta le stesse scelte cromatiche e di scenografia del primo capitolo con ambientazioni fatiscenti e cupe quando descrive gli strati “bassi” della popolazione, il mondo del sogno contraddistinto da variazioni di grigio e una grande casa moderna, bianca e asettica, nella quale collocare la vittima degli incubi. In Nightmare detective 2, però, Tsukamoto rinuncia ai suoi marchi di fabbrica già presenti in maniera diluita (anche se efficace) nel primo, azzera il gore e gli spaventi, ma è in grado di creare scene di tensione sopra la media, in maniera non banale, anche grazie all’uso intelligente degli effetti sonori. A dimostrare ciò bastano il piano sequenza nell’ascensore, un portentoso crescendo di ansia e aspettativa, e la semplice scena del sogno ricorrente di Yukie, nella quale il regista riesce a rendere raggelante la figura di Kikugawa ripresa di spalle, con in mano un bicchiere d’acqua, che cammina all’indietro.

Quello di Tsukamoto rimane comunque un horror atipico, più che su suggestioni visive inquietanti e scene da balzo sulla sedia è infatti basato sulle psicologie dei personaggi, quella del detective in particolare. Questa volta il rapporto con la tecnologia, importante nel primo episodio, e quello con la metropoli (trait d’union della sua filmografia), non c’entrano affatto. E’ piuttosto un altro dei grandi temi cari al regista che qui trova probabilmente la sua più compiuta riflessione: quello della memoria e dei traumi infantili che mai come in questo film condizionano i protagonisti fino a diventare il fulcro stesso della narrazione. Innumerevoli sono le scene girate in flashback che vanno man mano a convergere, come in cerchi concentrici, sulla figura della madre del protagonista. Con una scelta azzeccatissima di casting, Tsukamoto fa interpetare questo personaggio da Ichikawa Miwako, la quale possiede il volto perfetto per far convivere nelle sue espressioni pazzia, affetto, paura e innocenza. Il suo comportamento – e quello di Kikugawa – sono  rappresentantivi di persone troppo sensibili – o potremmo dire deboli? - per vivere in questo mondo; terrorizzate da qualsiasi cosa (le volte che viene ripetuto “kowai” – ho paura – non si contano) vedono minacciato il proprio fragile microcosmo da ogni alito di vento e non hanno altro mezzo per reagire che la violenza, verso gli altri o verso se stessi. Quando il personaggio di Matsuda Ryuhei  ha la possibilità di capire le cause del comportamento della madre nella persona di Kikugawa, non esita ad entrare nel sogno di Yukie  per incontrarla, ma nel mondo dei sogni, e in quello di Tsukamoto, non esistono risposte facili.



La verità è celata troppo a fondo, anche più a fondo dei sogni, per essere chiaramente interpretabile e così emerge uno degli aspetti più affascinanti del film, che già Tsukamoto aveva dimostrato di saper padroneggiare in altre pellicole come Haze e Vital, ovvero la confusione dei piani temporali, ancora più marcata che nel primo episodio della serie. Ad una prima parte piuttosto lineare nella quale l’alternanza di presente/flashback/sogni appare decifrabile, nella seconda, con l’infittirsi dei rapporti conflittuali tra questi elementi, i confini appaiono sempre più labili e lo spettatore si trova spaesato e non in grado di collocare le scene in un piano narrativo definito, alla maniera di un David Lynch. Nonostante le profonde differenze col primo capitolo, però, il finale del film sembra tracciare una continuità con esso; perchè ciò che muove Ryuhei nella sua ricerca all’interno dei sogni è, banalmente, uno dei desideri più primitivi e basilari dell’esistenza umana: sapersi amati da chi ci ha creato e l’ultima, bellissima sequenza nella sua semplicità richiama il ”buon profumo” di Vital; brevi momenti nei quali Tsukamoto con la macchina da presa rende palpabile una felicità fanciullesca e sincera.

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