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Somewhere

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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La recensione su Somewhere

di LorCio
6 stelle

Premiare con il Leone d’Oro un film che sulla decomposizione dell’età dell’oro. Giochetti linguistici a parte, sarebbe ancorpiù interessante per noi provinciali pettegoli capire le vere ragioni che hanno spinto la giuria del dilagante Tarantino a premiare col massimo riconoscimento quello che è in realtà un film pressoché dignitoso. La nostra fantasia alimentata da mille rotocalchi ci induce a pensare che quel Leone va al di là dell’oggetto filmico, come se Quentin sapesse più di quel che dice. È probabilmente così, dato che il presidente e la regista del film, Sofia Coppola (l’emancipata figlia di Francis che già da tempo ha fatto vedere quanto vale come autrice – incluso l’incompreso Marie Antoinette), hanno vissuto una storia d’amore che oserei definire un incrocio fra il cult e il kitsch. Ma lasciando perdere anche il gossip – che nel film resta sullo sfondo e ha un suo senso – c’è immediatamente da dire che Somewhere è un film estremo, e l’estremismo lo raggiunge in una bizzarra sintesi tra etica ed estetica.

 

Viale del tramonto anticipato ed esistenziale di un attore che non è per niente alla fine del suo tempo, è il racconto del crepuscolo di un uomo che capisce di dover essere un’altra cosa per continuare a convivere col proprio corpo e con la propria anima. A far da spia alla consapevolezza della crisi è la figlia spesso dimenticata, che diviene finalmente parte della sua vita e motore della coscienza. Somewhere è una disanima essenziale sullo sfarzo della solitudine dorata (lo Chateau Marmont, alloggio provvisoria ma in realtà permanente di molte star) che si esprime nei termini dell’incomunicabilità antonionana senza, tuttavia, un adeguato approfondimento psicologico. Il problema del film sta in due fattori ben precisi: da una parte il protagonista, a cui la Coppola mette in mano troppe bottiglie e troppe donne per ricordarsi di creargli un vero carattere, rendendo il suo percorso di formazione quasi povero di sviluppi che siano giustificati se non dal fatto di liberarsi dalla codardia e dall’inettitudine; dall’altra il vuoto nelle sue molteplici forme, vero tema del film.

 

Il pericolo che spesso non viene evitato è quello di raccontare il vuoto cadendo nel vuoto stesso. E l’evasione dal vuoto riempie la seconda parte del film, culminante in due momenti emblematici: la patetica telefonata alla moglie lontana e la fuga in Ferrari (malinconica co-protagonista) verso il deserto, alla ricerca di un nuovo inizio. Ne viene fuori, alla fine, un film triste, dalla struttura esile, che vive di provvisorietà ed improvvisi, sensazioni e stupori, che non dice niente ma lo dice bene. Colpo di fulmine per Elle Fanning, meglio della sorella Dakota, che vive della malinconia dei suoi occhi che hanno (già) capito molte cose, mentre Stephen Dorff regge il ruolo con l’anonimo fascino del divo in crisi. Dimenticabile il segmento italiano con la consegna dei Telegatti, che sottolinea ulteriormente come sia il vuoto il tema principale del film.

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