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Io, Don Giovanni

Regia di Carlos Saura vedi scheda film

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La recensione su Io, Don Giovanni

di spopola
4 stelle

Non ditemi che sono prevenuto verso Saura, un nome che non mi ha mai del tutto convinto: per me, sono i risultati pratici che consegue sul campo (fortemente accentuatasi in negativo in questi ultimi anni, dopo un promettente  - e sopravvalutato – inizio negli ani ’70 che gli ha dato gloria, oltre che “lustro” e visibilità internazionale, tutti elementi nel frattempo, e a ragione, decisamente ridimensionati), a darmi la certezza assoluta della sua mediocrità, nonostante che spesso tenti di esaltare il suo mestiere accostandosi a nomi e personaggi che meriterebbero altro trattamento e approfondito rapporto di quello che lui è in grado di riservare. 
L’ultimo approccio che definirei “infelice” che avevo avuto con il suo fare cinema, risale a qualche anno fa e al suo Goya (il cui esito perturbante è esemplarmente esplicitato nella illuminante sintesi che ne fa il Morandini per evidenziare le ragioni del “pollice verso”: “Penosa conferma del declino di Saura che, oltre a ricalcare quasi tutti gli stereotipi accademici del cinema biografico, s’impegna, con la complicità tecnica di Vittorio Storaro, maestro delle luci, a trasformare  in tableaux vivants i quadri famosi di Goya, da La Maya desnuda (o vestida) a I disastri della guerra, alle ‘pitture nere’ della Quinta del Sordo con risultati del Kitsch peggiore, quello che si gabella per Arte Sublime”.
Il riferimento a quel precedente poco “illustre”,  è a mio avviso inevitabile, poiché mi sembra che sia stato analogo l’approccio mentale (e operativo) seguito dal regista e dalla sua altolocata equipe di prestigiosi collaboratori, per realizzare questo “Io, Don Giovanni”: partire da un’idea culturalmente pregnante e ambiziosa (nel caso in esame anche un po’ spericolata, per come cerca di “cavalcare” la storia “pro domo sua”) per svilupparla poi dentro una preziosa cornice formale che dovrebbe servire a creare intorno all’opera un alone di autorevole interesse educativo nobilitato dall’ineccepibilità accattivante della confezione. Inappuntabile il progetto, non c’è che dire, ma mai come in questo caso, mi sembra che “fra il dire e il fare ci sia davvero in mezzo il mare” poichè ciò che approda sullo schermo è - più che discutibile – a dir poco, imbarazzante (e quel che è peggio “presuntuosamente” imbarazzante).
Non è certamente solo una mia impressione il pressoché fallimentare esito dell’operazione, se Alberto Crespi su L’Unità del 21 ottobre del corrente anno, lo stigmatizza impietosamente con queste parole: “Idea ambiziosa, intrigante… e incredibilmente goffa quando la si vede sullo schermo, recitata da attori improbabili costretti a pronunciare battute impossibili. Una mezza catastrofe insomma”. Già, perché il problema, al dì là della piatta insipienza del regista (che si ravviva solo a tratti, ma grazie a Storaro e alla musica di Mozart, comunque sublime in ogni circostanza, e capace di “far rianimare i moribondi” anche quando, come in questo caso, danno davvero pochissimi segni di vitalità) è concentrato prioritariamente lì, dentro a una sceneggiatura assolutamente carente che non riesce a dare sufficiente spessore più che alla storia vera propria, ai personaggi (che vivono spesso, per lo meno quelli “celebri”, solo della luce riflessa di ciò che già conosciamo da altre fonti e per l’alone “leggendario” che li circonda, elementi questi capaci di conferire dignità alle loro figure molto meglio di quanto invece ci viene rimandato dallo schermo), . oltre che negli improponibili (“impossibili”) dialoghi costellati da battute un po’ raccapriccianti e decisamente “fuori sintonia temporale”. Un esempio fra i tanti? Eccolo: “non fare lo gnorri!!!”  è  così infatti che la cantante che si  accompagna a Da Ponte anche negli affari di letto oltre che di scena, apostrofa l’abate quando si sente messa da parte e “tradita” da scelte inopportune che nemmeno si ha il coraggio di annunciare, oltre che dai troppi amori taciuti che la umiliano (un lessico che non mi sembra “filologicamnete corretto” rispetto all’epoca rappresentata:  non  è che si chieda la perfetta adesione, ci mancherebbe altro, ma addomesticare il linguaggio a una contemporaneità così spinta – e non è questa ovviamente l’unica “caduta” di stile – mi sembra che sia già di per sé alquanto disdicevole e improprio).
Il proposito di Saura era certamente  quello di usare la biografia poco nota dello scrittore-librettista (ma ricordo al riguardo una pregevole lettura teatrale da parte di Davide Riondino musicata da Stefano Bollani, proprio tratta da quelle memorie, che metteva molto di più e meglio in nuce gli aspetti “sconosciuti” e nascosti di un percorso di vita oltre che artistico, oggettivamente poco frequentato) per approdare a una interpretazione non del tutto pedissequa più che del personaggio, della creazione artistica in quanto tale (spostando però pericolosamente il baricentro dalla parte di Da Ponte invece che da quella di Mozart – quasi un “secondario” supporto, sembrerebbe qui - per come viene trattato l’andamento episodico delle scelte e delle soluzioni), comunque sempre ricondotta nei termini classici di un cliché abbastanza usurato che condanna l’artista e la sua arte all’ inferno della “dannazione”, con una messa in scena decisamente esplicativa in questo senso, proprio nel confondere e mischiare “vita” e azione scenica, non solo nei momenti della stesura, ma anche in quelli pratici di successiva “rappresentazione” teatrale (che poi sono oggettivamente le sequenze più riuscite e affascinanti dell’insieme, perché, proprio grazie alla musica - e  saccheggio ancora Crespi - “di tanto in tanto il film diventa sublime: sono i momenti in cui Mozart si impossessa della scena, riempiendo la sala di note perfette e confermandosi, insieme a Shakespeare, il “più grande uomo di cinema di tutti i tempi: non è un caso che il Don Giovanni sia stato anni fa un gran bel film [quello sì, veramente una straordinaria e intelligente mediazione anche sotto il profilo della realizzazione in immagini, aggiungo io], e mi riferisco a ciò che ne ha fatto Joseph Losey, impaginandolo con classe superba”).
Un tentativo tutto sommato di divulgazione esplicativa di per sé encomiabile, dunque, e su questo, “tanto di cappello”. Ma purtroppo, di buone intenzioni è lastricato l’inferno, e questa è proprio una di quelle, poiché finisce per rimanere  approssimativo e per dirci  molto meno di quanto vorrebbe proprio sulla figura “Da Ponte”.
Concentrandosi soprattutto sul momento creativo del Don Giovanni (l’identificazione viscerale del creatore delle parole del libretto con il personaggio mi sembra comunque abbastanza azzardata poiché sappiamo che vivrà – e resterà immortale – ovviamente senza nulla togliere al valore delle parole, grazie alle invenzioni della sublime forma musicale di un genio assoluto e insuperato come Mozart, qui goffamente messo abbastanza in secondo piano) si intende fare un parallelo fra “vita” e arte”  realizzato (e l’intuizione è bellissima) con quel continuo emergere del set teatrale da ciò che di analogo regala il vissuto “privato” alla rappresentazione (musicale e immagini dell’opera).
Tornando alla storia narrata, il film in effetti -  e come è necessario -  prende le mosse dall’infanzia di Da Ponte, e più precisamente dal momento del battesimo con cui “l’ebreo Lorenzo” abiura le sue radici, rinuncia alla propria religione, per essere poi ordinato abate (e si fa risalire a quel momento l’incontro e l’inizio dei significativi “intrecci” con Casanova, che sarà una figura importante non solo nella sua formazione, ma proprio per quanto riguarda la stesura del libretto di quel “Don Giovanni”  rivoluzionario, che però non dimentichiamolo, in origine si chiama “Il dissoluto punito, ovvero Don Giovanni”, che al di là di ciò che poi in effetti trasmette la musica, rappresenta molto bene il posizionamento “moralistico” rispetto a quella figura, richiesto dall’epoca): sarebbe indubbiamente proprio questa misconosciuta esegesi la parte più potenzialmente interessante e stimolante per accrescere la “conoscenza”, proprio perché la meno frequentata dalla storia, ma è invece proprio quella più confusa, irrisolta e approssimata,  nella realizzazione di Saura, che passa veloce attraverso le traversie politico-letteraie e amorose di Da Ponte, prete, massone  e libertino, per farcelo ritrovare direttamente nel suo esilio viennese.
Ampio spazio invece alle pulsioni eroticho-trasgressive, agli scambi “ideologici” sempre più propedeutici con un Casanova ormai disillusamente attempato e fortemente condizionante, oltre che alle beghe di corte fra cantanti che sono anche cortigiane e che si risolvono spesso in schermaglie persino poco attendibili che determinano “variazioni” anche importanti all’opera in corso di formazione (vorrei fare  rilevare al riguardo però che, senza scomodare Tirso da Molina, il personaggio di Donna Elvira che qui si adombra suggerito da un disdicevole contendere, e dalla necessità di accontentare l’esclusa,  è in qualche modo già tratteggiato – similare e conforme nel senso – proprio nel Don Giovanni di Moliere,  e che semmai la vera innovazione riguarda Donna Anna , anche se nemmeno in questo caso si può parlare di invenzione tout court).
Se poi si vuole attribuire a Zerlina la valenza salvifica di una “redenzione” in relaziono al ritrovato “amore idealizzato” partito dall’infanzia lontana e di nuovo a portata di mano (Don Giovanni = Lorenzo; Zerlina = Annetta), si faccia pure, anche se a me non sembra del tutto ortodosso, ma allora, proprio in relazione al rapporto che esiste rispetto all’ambiguità esplicativa del sentimento amoroso, perché sorvolare completamente – anche come semplice accenno storicizzato” - sul fatto che non è poi il Don Giovanni il momento che conclude il percorso, ma bensì la successiva Così fan tutte che proprio su questa tematica mi sembrerebbe avrebbe avuto davvero molto da dire, stimolando ulteriormente la fantasia.
La messa in scena è all’apparenza “sfarzosa” (ma vive quasi esclusivamente della stupefacente creatività delle illuminazioni di un Vittorio Storaro ancora una volta superlativo in un trascolorare continuo fra gli azzurri freddi delle brume veneziane dell’inizio, ai gialli ocra di Vienna, fino ai rossi infernali e infuocati del finale, ma che rischia davvero di vanificare il suo talento, che diventa inerte “mestiere” se applicato a operazioni che poi lasciano il tempo che trovano, come questa che stiamo osservando, e che lasciano ampio spazio per domandarsi davvero a che serve tanto splendore se poi gli esiti sono più che modesti), e si articola e prende forma nell’ambientazione sgargiante di un’epoca volutamente “finta” (intesa come “di finzione”, teatrale insomma), ricostruita spesso utilizzando fondali dipinti (che danno a volte però un disturbante senso di “posticcio”), quasi tutto ricostruito fra studio ed effetti speciali. Abbastanza carente di fascino anche il contributo di Aldo Signoretti (che cura l’hair styling) per una messa in scena indubbiamente curata nei minimi particolari e confezionata con estrema cura, ma per rappresentare tutto sommato una abbastanza miserella, che manca totalmente di pathos e di anima (fortunatamente c’è la supervisione musicale di Nicola Tescari, altro punto di eccellenza positiva,  che ben transla con meticolosa proprietà stilistica in straordinarie sonorità tecnicamente riprodotte, le immortali note del grande ’Amadeus qui malamente ridotto – come già osservato - a un ectoplasma fanciullescamente ilare (ma tutte le figure storiche, anche quella dell’Imperatore Giuseppe II, risultano se non del tutto inattendibili, approssimate e prive di spessore).
E si arriva a questo punto alla recitazione, che è davvero l’altro nervo dolente e “scoperto”, il lato incomprensibilmente più sciatto e inefficace: scarseggia davvero la sufficienza su questo versante e nemmeno il pomposo Salieri di Fantastichini – non certo per demerito dell’interprete – risulta particolarmente accattivante. E’ comunque il migliore, mentre ho trovato discutibilmente risibile il cameo di Interlenghi.  Lorenzo Balducci fa quel che può e a tratti riesce persino a raggiungere quel grado di sottile ambiguità che rende seducente un personaggio come Da Ponte (molto di più e meglio di un inconsistente  Lino Guanciale come Mozart). Giudizio sospeso invece  per Moretti (Casanova): la presenza potrebbe essere “accattivante”, ma il doppiaggio lo umilia, almeno così mi auguro coche sia, poiché altrimenti si dovrebbe concludere anche per lui che era meglio che rimanesse dalle parti del Commissiario Rex. Se gli uomini sono mediocri, è però proprio sul versante femminile che la frana è totale (anche la volonterosa Inaudi, l’unica “che fa qualcosina”, che sembra per lo meno impegnarsi  a dare una impossibile parvenza di credibilità alla sua figura, rimane notevolmente al di sotto di uno standard altrimenti discreto): Ferzetti su Il Messaggero (per altro uno dei critici più magnanimi nel giudizio complessivo sul film), proprio su questo fronte scrive: Alle donne del film – incredibile per un Don Giovanni -  vengono crudelmente negati fascino e spessore e Alessandra Levantesi Kezich su La Stampa ci va giù ancor più pesante affondano il coltello fino al manico: “un’attrice in particolare si distingue per vera cagneria” ed è così scolasticamente insopportabile – aggiungo io - da farci domandare quali possono essere state le recondite “qualità” per farle acchiappare un ruolo, sulla carta così “significativo”… poichè la sua prestazione è persino inferiore a quelle delle spesso inascoltabili comprimarie delle filodrammatiche di parrocchia, e tale, da far rimpiangere fortemente una qualunque “birignaista” delle D’Origlia Palma di  arbasiniana memoria. Rimane la musica e il canto dunque (niente da eccepire sulle prove degli interpreti sotto questo profilo: ma se tutto deve ridursi a questo, allora, molto meglio ascoltare, anziché questo conciso “bignamino”,  l’integrale bellezza dell’opera utilizzando il numeroso campionario di pregevoli cd presente sul mercato in edizioni spesso davvero memorabili … (e anche sul versante video, oltre  al Losey già citato, ci sono altre riprese allettanti capaci di offrire persino versioni fortemente “innovative” registicamente parlando, e di gettare così nuovi e più stimolanti “bagliori” sul contesto. Un film dunque solo pere melomani incalliti e, come scrive Raffaella Giancristofaro su FilmTv, “per amatori, come dicono a volte gli annunci di moto d’epoca”…: probabilmente è proprio così che stanno le cose… ma devono però essere davvero di “bocca buona” anche loro, per divertirsi e apprezzare,  altrimenti…

Sulla trama

La vita di Lorenzo Da Ponte, l’uomo che non rinuncia al suo animo libertino e alla sua amicizia con Giacomo Casanova. Esiliato da Venezia per 15 anni dalla Santa Inquisizione con  l’accusa di appartenere alla massoneria, Da Ponte si rifugia a Vienna (dopo altre brevi tappe però che il film ignora) dove grazie a una lettera di presentazione di Casanova, conosce Antonio Salieri, e tramite questo, Mozart. Scrive il libretto delle Nozze di Figaro che si rivela un grande successo, e ritrova la giovane Annetta, di cui si era innamorato a Venezia. Dopo un nuovo incontro con Casanova, propone a Mozart di scrivere una nuova versione del Don Giovanni e man mano che scrive il testo si immedesima sempre più nel personaggio. La sua passione per Annetta lo spinge a lasciare la sua vita dissoluta e a dedicarsi solo a lei. La prima di Don Giovanni, alla presenza dell’Imperatore Giuseppe II, ottiene grande successo.

Su Carlos Saura

I suoi limiti li ho già evidenziati: sempre la Levantesi Kezich col suo articolo su La Stampa conclude così l’intervento critico sul film: Viene da chiedersi perché Saura non abbia realizzato direttamente l’opera, cosa che a giudicare dalle scene musicali del film magari gli sarebbe venuta anche bene”. Beato ottimismo, il suo che io non mi sento davvero di condividere, visto che ho avuto la disgrazia di confrontarmi in diretta con il nulla che aveva da dire (nessuna idea né angolazione di lettura) nella messa in scena (indecorosa) della Carmen (che avrebbe dovuto essere un suo terreno d’elezione) realizzata per il Maggio di due anni fa in collaborazione con Valencia, dove persino i cantanti erano lasciati a se stessi, e a seguire il proprio istinto in mancanza di una linea generale, lasciando così ampio spazio al “disastro annunciato” inevitabile e puntualmente verificatosi, visto che poi nonostante la qualità vocale di quassi tutti gli interpreti, proprio per la scarsa “fisicità” della rappresentazione, il successo più vivo è arriso al personaggio di Micaela (il che in genere è già sinonimo di un “fallimento”).

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