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Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Visage

di alan smithee
8 stelle

Il fantastico regista taiwanese di Vive l’amour approda in Francia, che in piu’ occasioni e film ci aveva gia’ comunicato indirettamente di amare. Lo fa  con un film su commissione, a quanto sembra voluto proprio dall’organizzazione del Louvre e per questo dichiaratamente celebrativo di questa celeberrima struttura, che fa da sfondo a parte delle bizzarre e visivamente magnifiche vicende della pellicola.
E’ quasi impossibile riassumere la storia del film, perche’, come spesso accade in Ming Liang, la vicenda  non esiste o e' un canovaccio che si completa in corso di realizzazione dell'opera. L’eccellente regista taiwanese e’ forse il miglior cineasta capace di rappresentare lo scorrere dei giorni, l’apatia del tempo che vola via immergendoci in una tristezza infinita, scalfita solo a tratti da un impeto erotico e sessuale che appaga quei pochi attimi, prima che la realta’ torni a coprirsi di quel grigiore patinato che incombe sulle esistenze quotidiane. In questo film ritornano, quasi a far mostra di se’, tutte le ossessioni e le peculiarita’ stilistiche che hanno reso grande l’ammirato cineasta: lunghi pianosequenza interminabili che seguono i protagonisti nelle piu’ ordinarie azioni quotidiane, riprese minuziose, instancabili, ma mai inutili o gratuite e soprattutto incredibilmente ammalianti pur nell’ordinarieta’ delle azioni rappresentate; il volto di una donna impegnata a riordinare una ghiacciaia, che si muove sempre piu’ ossessivamente e finisce lentamente per scoppiare in un pianto irrefrenabile e sconsolato di disperazione (e’ la piu’ evidente citazione della celebre scena finale di Vive l’amour); siparietti musicali accattivanti, coloratissimi e scatenati, come succedeva in The hole, quasi un tentativo di evadere, con la fantasia, dalla piatta quotidianita’ dilagante (qui la musa ispiratrice e’ una Laetitia Casta bella come un’icona, una Salome’ bizzarra e altamente scenografica che corteggia il suo Giovanni Battista, quasi un naufrago tra le  acque torbide e scure dei canali parigini, i famosi "egouts de Paris"); l’erotismo di scene e coreografie sensuali sempre piu’ acrobatiche e coreografiche che sublimano l’atto amoroso sempre piu’ ricercato e spinto oltre i confini di un piacere ordinario, dato che la vita e’ gia’ cosi’ ordinaria e insignificante (cose gia’ viste nel controverso e bizzatto "Il gusto dell’anguria").

E poi un attore vecchio, un po' folle e sfinito, incapace di trovare una soluzione interpretativa a cio’ che gli si chiede di impersonare, forse perche’ il mondo odierno e’ diventato cosi’ distante ed estraneo alla sua cultura fatta di cinema neo-realista e Cahiers du cinema: un vecchio stanco che si addormenta sul set innevato artificialmente di un bosco che sembra immenso ma in realta’ e’ frutto di un artificioso e accattivante un gioco di specchi che illude persino il cervo che si aggira tra i tronchi innevati: l’illusione di una vita che sembra libera e vasta, ma in realta’ ti ingabbia in un gioco di specchi fasullo ed artificiale quanto un set posticcio per quanto scenografico e seducente.

E ancora una produttrice elegante, abbandonata da tutti, dimenticata per strada dagli addetti alla produzione, che nella solitudine si rifugia nel calore di quei personaggi celebri (Truffaut in testa, ma pure l’ Antoine Doinel di un Leaud che ricompare giovane e vecchio nella stessa pellicola, quasi a sottolineare l’impietosa drammaticita’ del tempo che passa) che hanno costituito per lei la parte migliore di una vita, di una carriera, di un sentimento. Bellissima la ripresa che la vede assorta all'interno di un appartamento, mentre la cinepresa la cattura da fuori la finestra, dove la civilta' scorre in viadotti tortuosi come le vite di ognuno di noi.

E infine, immancabile come sempre, un Lee Kang Sheng, regista incaricato di un progetto piu' grande di lui (alter ego piu' che mai del suo adorato regista) che si aggira smarrito come sempre sia a Taipei, tra incidenti domestici e una madre in stato catatonico, sospesa nell’acqua che invade l’appartamento in cui vivono, sia tra un set cinematografico che non comprende appieno, ma in cui trova un conforto e una fonte effimera di appagamento, girando senza meta tra le sterpaglie artificiali del suggestivo set, prima di approdare tra le reti ammalianti di una Salome (la suadente Laetitia Casta appunto) decisamente ispirata e coinvolta.
Bisogna imparare a prenderlo cosi’ questo meraviglioso regista: lasciarsi catturare dalla potenza visiva della sua ripresa, sempre al limite tra il voyeuristico e l'autoriale, senza cercare troppi se e troppi perche’: la vita e’ gia’ troppo complicata e caotica per permetterci il lusso di poterla capire fino in fondo.
Per chi teme questo regista nessuna paura: questo strano film non arrivera' mai ne' nelle nostre sale, ne' tantomeno in altri formati di fruizione; rassicurante per molti, inquietante per alcuni altri, tra i quali mi annovero e riconosco.

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