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Kinatay. Massacro

Regia di Brillante Mendoza vedi scheda film

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La recensione su Kinatay. Massacro

di Peppe Comune
8 stelle

Peping (Coco Martin) è uno studente di criminologia. Ha un bambino piccolo ed ha intenzione di sposarsi con Cecille (Mercedes Cabral). Ma gli servono soldi per tirare avanti e per questo accetta di lavorare con il suo amico Abyong (Jhong Hilario) nella riscossione del pizzo alle attività commerciali per conto della malavita di Manila. Un giorno Abyong gli propone di fare un lavoro diverso, molto ben pagato. Si tratta di prelevare una prostituta (Maria Isabel Lopez) in ritardo coi pagamenti e dargli un’esemplare lezione. È così che Peping si ritrova in compagnia di un gruppo di poliziotti corrotti a trascorrere un’intera notte da incubo. Ad assistere passivamente alla gratuità esplosione della violenza.      

 

 

“Kinatay” di Brillante Mendoza ci porta a spasso dentro i deliri notturni di Manila, un incubo metropolitano che accresce con calcolata progressione la sua portata malefica. Un film disturbante che fa emergere la chiara intenzione di volerlo essere, e non tanto per il modo diretto in cui ci viene spiattellata in faccia la violenza, ma per come la tecnica di ripresa tende ad aderire con intima complicità con l’oggetto rappresentato. Macchina perlopiù a mano, riprese in digitale (in 35 mm) e piani sequenza “slabbrati” contribuiscono non poco a far emergere una sensazione di soffocante tensione emotiva. La macchina da presa si muove come se fosse libera di agire come meglio crede, preoccupandosi essenzialmente di registrare odori e catturare umori. Con una leggerezza che finisce per assorbirla totalmente nel caos panico impresso nell’inquadratura, incurante di armonizzarsi con una preventiva organizzazione degli spazi o di fornire un design riconoscibile alla messinscena. Se ne ricava un “effetto verità” che porta ad allineare lo stato emotivo di Peping con quello di chi guarda il film, che a lui si affida per entrare fino in fondo nella violenta progressione degli eventi. Non c’è voyeurismo d’accatto nella regia di Mendoza, solo l’intenzione di rappresentare con crudo realismo la totale assenza della pietà umana. Mettendo lo sguardo di Peping alla distanza consentita e facendo dello strumento cinema un testimone d’eccezione.  

L’iperrealismo praticato da Mendoza, nel negare alla messinscena ogni patina estetizzante, accresce di senso la capacità propria del cinema di penetrare il senso delle cose. Più si entra dentro il film, più le riprese non ci aiutano ad avere delle coordinate spaziali cui affidarci, è più cresce la sensazione di entrare dentro l’incubo di una notte che di reale ha soprattutto la fredda esposizione del male.

“Kinatay” è una parabola umanista che senza soluzione di continuità percorre per intero la sua strada verso la totale perdizione. Tutto nel volgere di poche ore, con le luci naturali a fare da sfondo significativo all’esercizio delle pratiche criminali, da quelle del giorno, che fanno da cornice serafica al caotico sound metropolitano, fino a quelle della notte, dentro un buio che annerisce l’animo di chi guarda più di quanto ci si sarebbe aspettato. Brillante Mendoza usa la luce come strumento tangibile della narrazione, e non tanto per giocare con la facile dicotomia tra luci e tenebre, tra la rassicurante visibilità del giorno e le minacciose ombre della notte, ma per offrirgli un ruolo interattivo nella crescente esposizione dell’orrore. Un bellissimo tramonto sul mare (a circa mezz’ora dall’inizio del film) segna appunto questa netta distinzione di scenario ottenuta attraverso la luce catturata dal vivo dalla macchina da presa. Uno stacco di inquadratura ci fa passare da Peping che parla serenamente con un amico di cose universitarie a delle mani che trafficano soldi. Nello stesso momento, dei poliziotti che di giorno lavorano per far rispettare la legge, nella notte esercitano per conto del malaffare la violenta legge del più forte. Le ombre è come se arrivassero con fare espressionista ad indirizzare le volontà umane, a scaraventarle dentro un mondo in parallelo che usa altri codici comportamentali. È così che Peping si ritrova imprigionato in un gioco al massacro che va oltre la sua intenzione di rasentare il mondo del crimine per fare soldi facili. Il suo sguardo diventa quello dello spettatore, semplicemente perché il suo sgomento cresce col crescere dell’orrore, e avviene in presa diretta, a stretto contatto con quello che mai si sarebbe aspettato di vedere. In un crescendo emotivo che lo fa essere suo malgrado spettatore privilegiato di uno spettacolo lugubre tristemente ordinario. I suoi occhi che hanno registrato con passiva partecipazione la gratuita violenza di una notte, unitamente al passo stanco che si addentra in una Manila risvegliata, abitata dalla varia umanità di sempre che come ogni giorno si trova al suo posto, bastano a generare una linea di continuità tra ciò che di orrendo avviene nell’oscurità della notte e quello che di giorno viene raccontato solo attraverso i notiziari della televisione. Brillante Mendoza ha tolto quel filtro tranquillizzante, ha rotto le distanze tra il male che sono capaci di fare gli essere umani e la sua narrazione teletrasmessa. Facendo dell’occhio umano l'unico medium abilitato a bussare alla porta dell’inferno. Grande film.                   

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