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Regia di Nacho G. Velilla vedi scheda film

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La recensione su Fuori menù

di spopola
6 stelle

Che dire? Un film fatto con molti ritagli Almodovariani (e non solo per quanto riguarda l’utilizzo degli attori). Il tocco è leggero, persino un po’ anarcoide, se vogliamolo. Ci si diverte, si sorride e si riflette, si passa insomma una piacevole serata “pensante”, ma Nacho Garcia Velilla non è (purtroppo) Almodovar e si sente: lavorare sulla sua scia non è sufficiente… manca l’affondo, anche se la commedia è godibile… solo troppo simile a tanto cinema iberico della contemporaneità da non riuscire a trovare una via completamente autonoma per staccarsi dal cliché. Certo se confrontato con altri prodotti nostrani di analoga “fattura” e direzione, la differenza si avverte ed è tutta a favore di questa pellicola, che ha un approccio “politicamente scorretto” (solo un poco però) e piena di battute fulminanti, ma alla resa dei conti molto meno “trasgressiva” di quanto può apparire a prima vista, poiché al di là dell’eccentricità un po’ paradossale di certe situazioni, il messaggio finale che se ne ricava è molto conciliante e conforme, e può essere in sintesi riassunto come segue: rimanere fedeli sempre e comunque a ciò che si è, è un merito non indifferente che ripaga, poiché in qualsiasi modo la si giri, a qualunque “parrocchia” si appartenga, è la coerenza ad essere importante, e poi è alla fine l’amore, se di buona tempra, quello che vince sempre, anche contro i pregiudizi e le convenzioni. Il linguaggio è certamente spregiudicato, ma al di là della tematica, lo svolgimento è invece “castigato e puro” (nelle immagini), quasi che ci si trovasse dentro una commedia “borghese” degli equivoci del buon tempo che fu pensata “semplicemente “ al maschile. Potremmo definirlo in fondo un evidente frutto dell’era “Zapatero”, nel senso che ”celebra a suo modo” (con divertita autoironia intendo dire) la “laicità” dello stato, e con essa la ritrovata libertà del vivere una condizione (anche quella omosessuale) senza sotterfugi e pregiudizi (e questa forse è davvero l’aria che si vive adesso in quelle terre, e una certa invidia è persino inevitabile), rivendicando una autonomia di espressione (e una giocosa accettazione) senza più le ipocrisie del perbenismo imperante e le restrizioni oscurantiste (anche ideologiche) di un “bacchettonismo” clericale da noi predominate (e prevaricante), ma decorosamente attenta a “non strafare” per non turbare gli equilibri già difficili da mantenere in piedi (un pizzico di cattiveria in più e – perchè no? visto che ci troviamo in Spagna – di surrealismo al vetriolo, sarebbero comunque stati ingredienti che avrebbero reso molto più allettante e appetibile il menù). Protagonista è Maxi, gay molto manifesto (ma dal passato “controverso” molto simile a quello del Tognazzi del Vizietto, una “intemperanza giovanile” che qui diventa poi uno degli elementi di “scompiglio” momentaneo delle “armonie simmetriche” di coppia) proprietario un po’ isterico di un ristorante alla moda, ma poco considerato dalla guida Michelin (un suo cruccio evidente) che all’improvviso si trova a dover fronteggiare l’emergenza di fare da padre ai propri figli (con i quali, per usare un eufemismo, non aveva mai avuto un rapporto molto idilliaco, visto che se ne era sempre disinteressato come se la cosa non lo riguardasse) lasciatigli in eredità dalla ex moglie morta di cancro, in una complicanza di “emergenze” e malintesi fra calciatori gay, cuochi beoni, creatività culinarie, genitori un po’ fuori bussola, ispettori in forte anticipo sugli orari e collaboratrici leggermente assatanate. Insomma “disinibito” e progressista certamente, ma troppo “prudente” e non sufficientemente “scollacciato” come avremmo voluto potesse essere, vista la materia e il senso. Diciamo che il regista (credo alla sua prima prova cinematografica) se la cava egregiamente con il mezzo (e con gli attori), ma si avverte troppo la sua provenienza “formativa” che è forse la ragione di troppa trattenuta “convenzionalità narrativa”: è lui l’autore del format di un serial di successo importato anche da noi che risponde al titolo di “Un medico in famiglia…” e questo può davvero dirla lunga sulla mancanza di coraggio di stampo un po’ “televisivo” che gli impedisce di pigiare davvero il pedale fino in fondo. I risultati ad ogni modo sono spesso esilaranti (straordinaria l’ambientazione in una Madrid - o meglio nel suo “speciale” e celebrato quartiere di La Chueca - palpitante e colorata, quasi finta, da risultare a volte leggermente “irreale”, un sogno ad occhi aperti dove sembra straordinario potere soggiornare),i ritmi giusti, “perfetti” i tempi comici e le “intromissioni”… merito ovviamente anche degli interpreti, tutti adeguati e in parte, primi fra tutti gli “almodovoriani” (inevitabile ritornarci sopra, perché è proprio da lì che si parte per tessere la tela) Javier Cámara (Max) che offre un gustoso ritratto appena un po’ sopra le righe della “isterica malscopata” che è chiamato a rappresentare con ironica irriverenza, Lola Dueñas (Alex), l’amica dagli scatenati e (irrisolti) appetiti sessuali e Chus Lanpreuve. Accanto a loro l’ottimo, “fisicamente” appetitoso Benjamin Vicuña (un calciatore non proprio “ortodosso”), il divertente e istrionico Fernando Tejero, e ancora Carlos Leal e Mariano Peña fra gli altri. A conti fatti, allora… se si potessero dare i mezzi punti, l’equo giudizio finale dovrebbe essere quello delle tre stelle e ½ , ma poiché questo su Film Tv non è possibile, mi devo necessariamente fermare a tre, perché per i miei gusti (e i miei parametri) assegnargliene quattro significherebbe peccare davvero di eccessiva “generosità”.

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