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The Tree of Life

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su The Tree of Life

di laulilla
6 stelle

Premiato a Cannes con la Palma d'oro, questo film ha fatto discutere e ha diviso la critica e il pubblico. È in ogni caso un film da conoscere:

il film racconta una famiglia texana negli anni ’50, soffermandosi sui rapporti affettivi e sulle dolorose lacerazioni provocate dalla morte di un figlio; lo sfondo di questa tragedia familiare è il processo grandioso che ha reso l’ambiente naturale adatto all’insediamento della vita vegetale, animale e infine umana, secondo una visione evoluzionistica, che sembra priva di senso e di finalità.

 

Venti minuti di immagini molto belle ed elaborate si susseguono, suscitando sconcerto in alcuni spettatori e meraviglia in altri, per ripercorrere la storia del cosmo e della terra, collocando perciò il dolore dei membri di questo piccolo nucleo, nella più generale tragedia di ogni uomo, per il quale nascita e morte segnano i confini dell’esistenza secondo logiche e leggi che non tengono conto dei progetti, degli affetti e della voglia di vivere.

 

Il regista, però, fin dall’inizio ci dice che se noi non accettassimo una visione esclusivamente naturalistica dell’Universo, accontentandoci delle sole spiegazioni scientifiche e ricorressimo a una spiegazione fondata sulla Grazia, potremmo trovare un senso e un fine alle cose e alle vicende che ne paiono prive.

Il film ha inoltre un preciso richiamo al libro di Giobbe nell’incipit, ciò che significa che la ricerca del senso non comporta necessariamente una risposta positiva all’aspirazione dell’uomo a vivere senza soffrire: il Dio che Malick postula, dunque,  potrebbe, come quello di Giobbe, chiedere agli uomini fede e obbedienza a leggi umanamente poco comprensibili, apparentemente capricciose e arbitrarie, come fa il padre della famiglia del film, che pare compiacersi dell’arbitrio delle sue assurde imposizioni e che, non a caso, esige che i figli lo chiamino “Signore”. L’accostamento, che parrebbe blasfemo, è probabimente plausibile: nel film abbondano, infatti, altri parallelismi più o meno espliciti, che, se meditati, ne permettono una migliore comprensione.

 

La parte centrale (probabilmente la migliore) è dedicata alla descrizione della vita familiare e delle dinamiche che si creano fra i diversi membri del piccolo nucleo: un padre severo e autoritario che fissa i paletti entro i quali i figli possono muoversi e agire; una madre dolce e protettiva, a sua volta vittima delle angherie del marito; tre bambini che, incuranti dei divieti paterni, si dedicano all’esplorazione sistematica del mondo che li circonda, ai giochi anche violenti e aggressivi nei quali misurano le proprie forze, sospinti dalla volontà di conoscersi e di conoscere il mondo, come è avvenuto nella storia dell’uomo, il cui incoercibile bisogno di sapere non ha mai accettato limiti.

La conoscenza disgiunta dalla Grazia, tuttavia, ha ottenuto solo apparentemente risultati positivi: la razionalità fredda dei bellissimi grattacieli, che nel film paiono quasi gareggiare per imponenza con gli spettacoli naturali, non emoziona, è priva di pathos, non suscita desiderio di protezione e d’amore. Sono le esigenze profonde che postulano l’esistenza di un Dio che ci risarcirà, sia pur tardivamente (è tardivo anche il perdono che il padre chiederà al figlio a lungo vessato), colmando lo scarto fra la creazione, che impone a ogni essere vivente rigidi e dolorosi limiti, e l’aspirazione all’ amore e alla gioia che è in ognuno di noi.

Il guaio è, però, che questo tardivo risarcimento, nel film, almeno, è assai poco allettante: un al di là incolore e mieloso in cui solo l’amore domina fra le creature e che se dovesse durare in eterno, sarebbe davvero di una noia insopportabile.

 

 

 

 

 

L'opera, molto discutibile e alquanto divisiva, aveva suscitato dubbi e perplessità anche in seno alla giuria di Cannes che le aveva assegnato la Palma d'oro nel 2011. Personalmente, per quanto possa valere la mia opinione in proposito, la frammentarietà quasi impressionistica della narrazione non mi era sembrata  all’altezza del contenuto filosofico, rimasto troppo spesso in una condizione di ingenua velleità.

La recentissima seconda visione sullo schermo televisivo non ha del tutto dissipato quelle mie incertezze di allora; ho ancora apprezzato, tuttavia, la simbolica profondità della seconda parte del film nonché la bellissima fotografia di Emmanuel Lubezki, mentre di nuovo non mi ha convinta la rappresentazione della beatitudine tranquilla della conclusione (quel paradiso, o quella Grazia, proprio non mi attira). 

 

 

 

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