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Amore che vieni, amore che vai

Regia di Daniele Costantini vedi scheda film

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La recensione su Amore che vieni, amore che vai

di giancarlo visitilli
4 stelle

Non al denaro, non all’amore, né al cielo, tanto meno da De André sarebbe stata gradita quest’operazione, che a differenza dell’opera da cui è tratta, il romanzo “Un destino ridicolo”, di De André, in collaborazione dello psicanalista Alessandro Gennai, è di gran lunga inferiore. Anzi inutile. Perché, chi va a cinema per vedere il film di Costantini, ha l’idea di andare a vedere i reietti e gli inetti di cui ha raccontato, scritto e cantato il cantautore che manca in questo paese orfano della sua poesia. Niente di più fuorviante, rispetto a queste desiderata.
Il titolo del film, furbamente tratto da una delle più belle canzoni scritte dal cantautore genovese, in realtà è l’epitaffio per un filmetto che racconta ciò che si vive e si svolge nel quartiere antico di Genova, tra il porto e i carruggi che si intrecciano uno nell’altro, dove vivono tre uomini. Carlo, un pappone per caso, Bernard un ex partigiano malavitoso, legato al clan dei Marsigliesi e Salvatore, un ex carcerato sardo, che si innamora di una bella prostituta. I tre devono mettere a segno il colpo che li sistemerà per la vita e invece qualcosa andrà storto. E poi Carlo si innamorerà di Maritza, una prostituta che gli ha fatto perdere la testa e la ragione.
Qui, nonostante si tratti delle strade di via del Campo, non c’è nessuna che ha “gli occhi grandi color di foglia se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano”, non c’è nessuna salma in giro per le strade, anzi non è mai domenica, non vi passa nessuna Princesa. Insomma, il film non è né su De André, né parla di quello che De André ha vissuto nelle stesse location che Costantini utilizza nel suo film.
Semmai, il regista si pone proprio agli antipodi della poetica deandreana, poiché tutto nel suo film è grottesco e fortemente estetizzante (la fotografia disturba allo stesso modo dell’ultimo film di Corsicato, Il seme della discordia). Per la bellezza di 101 lunghissimi e interminabili minuti, si assiste ad una storia in cui il pappone è caricaturale, alla maniera del primo Renato Rascel; anche le prostitute sono più raffinate della Bellucci nell’ammorbante pubblicità di Muccino, quella sulla lingerie che ricorda i bertolucciani tanghi parigini; i malviventi tutti addobbati con giacca e cravatta; finanche le comparse hanno tutta l’aria di chi, in modo strafottente, deve far di tutto per mostrare che ‘qui si sta recitando’. Chissà se ai tempi di De André, a soli pochi anni fa, c’erano i locali jazz in quelle strade, in cui si suona la musica ‘colta’ e le donne sono solo esclusivamente impellicciate, tanto che tutto, dai muri agli abitanti interni, sembra il Billionaire. Insomma, uno schiaffo ai letamai raccontati da De André.
Il cast, da Fausto Paravidino a Tosca d’Aquino, son degni neanche della peggior fiction da tivù di stato. Menzione a parte, invece, gli sprecati Donatella Finocchiaro e Filippo Nigro. In linea d’intenti con il regista anche le musiche del film, del premio Oscar Nicola Piovani, che sembra fare sempre e soltanto delle variazioni sul tema del film che lo hanno reso famoso nel mondo.
“Forse la vita è un gioco, ma sarebbe da stupidi farla diventare una tragedia”: è una frase del film che bene rende l’idea di questa brutta operazione del regista che aveva mostrato una certa bravura nel precedente film, La banda della Magliana. De André, comunque, avrebbe detto che sarebbe stato da stupidi fare diventare la tragedia umana un cartone animato. Della peggior specie.
Vivamente consigliato: starsene in casa, in ascolto di un disco a caso del tristemente scomparso.
Giancarlo Visitilli

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