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Puccini e la fanciulla

Regia di Paolo Benvenuti vedi scheda film

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La recensione su Puccini e la fanciulla

di Peppe Comune
8 stelle

Doria Manfredi (Tania Squillardo) è la cameriera della residenza di Torre del Lago di Giacomo Puccini (Riccardo Moretti). Durante l’assenza dalla casa della famiglia, Doria riceve una lettera da Elvira (Giovanna Daddi), la moglie del musicista, per avvisarla che presto faranno ritorno a casa e che verranno anche la figlia Fosca (Debora Mattiello) con il marito e i figli. Doria comincia a rassettare per far trovare tutto in ordine, ad aprire porte e finestre per far prendere aria e luce alla casa. Cosi facendo scopre Fosca a letto con il suo amante. Questa spiacevole scoperta metterà in cattiva luce la povera Doria, che dalle due donne di casa verrà accusata di essere l’amante segreta di Giacomo Puccini.

 

 

 

Nel gennaio del 1909, a Torre del Lago, mentre Giacomo Puccini sta componendo “La fanciulla del west”, la giovane cameriera Doria Manfredi si uccide. Il film racconta i fatti che ne determinarono la morte.

Questa didascalia descrittiva che precede l’inizio del film conferma una peculiarità precisa del modo di fare cinema di Paolo Benvenuti, quello di seguire le tracce della documentazione storica d’archivio per trarne fuori piccole storie dimenticate da tutti. Al centro del suo cinema ci sono le vicende di uomini e donne che vivono all’ombra della grande storia che si compie, pronti a subirne tutti gli effetti negativi perché legati al ruolo marginale loro assegnatogli. Così è stato anche per Angeluccio della Reccia, accusato dalla chiesa cattolica di giudaesimo (“Confortorio”), per il brigante della maremma Tiburzi, pedinato dalle autorità (“Tiburzi”), per monna Gostanza, condannata dalla Santa Inquisizione perchè ritenuta una strega (“Gostanza da Libbiano”) e per i contadini siciliani nella storia rivisitata di Portella della Ginestra (“Segreti di Stato”). Paolo Benvenuti segue un rigore filologico serratissimo,  mostrando coraggio e convinzione nel praticare un tipo di cinema non facilmente “consumabile”, un cinema che, da un lato, contrae debiti con il Rossellini “saggista” e, dall’altro lato, guarda alla lezione stilistica di autori “essenziali” come Dreyer e Bresson.

 In “Puccini e la fanciulla”, ad orientare lo spettatore nella trama portante della storia, sono le voci off che spiegano il contenuto delle lettere che i diversi personaggi si scambiano vicendevolmente. Tutto il resto è un ostinato mutismo a cui fa da sottofondo la musica del maestro che aderisce, come nella miglior tradizione del cinema muto, allo sviluppo drammatico della storia.

Cosa dicono le parole più delle immagini se a parlare è una composizione dell’inquadratura che mutua direttamente dall’espressionismo la volontà di rappresentare il carattere mutevole dei personaggi attraverso l’uso “visionario” dei colori e la forza evocativa della musica ? Cosa raccontano i dialoghi più dei silenzi forzati se bastano i chiaroscuri che avvolgono i corpi e occhi catturati di sbieco dalla macchina da presa per far emergere un’atmosfera melodrammatica dai tristi presagi ? Cosa ci dice il narrare esplicito più dell’ agire per ellissi narrative se il quadro storico che ne fa da sfondo produce imperituro sempre la preminenza degli interessi dei più forti ? Cosa ci mostra lo sguardo ampio sulla storia più dell’analisi filologica di un fatto particolare se i più deboli sono sempre destinati a soccombere dentro gli ingranaggi “ufficiali” della grande storia ?  Il cinema consente, a chi lo sa fare veramente, di raccontare molto anche mostrando poco, di parlare alle menti dello spettatore anche se non usa le parole per arrivare direttamente al punto, di evocare stati d’animo ed ambiguità caratteriali anche solo facendo di ogni singola inquadratura lo spazio designato ad ospitare ombre enigmatiche ed una percepita sensazione di mistero. A mio avviso, Paolo Benvenuti a sempre dimostrato di saperlo fare molto bene il cinema, capace di modellarne il linguaggio alle sue esigenze stilistiche, di praticare l’innovazione pur producendo un cinema dal sapore antico, ricondotto alla sua essenza di arte visiva che necessita di un’adeguata educazione dello sguardo per essere apprezzata in tutte le sue implicazioni poetiche.

“Puccini e la fanciulla” è un film che si nutre di sensazioni, che vive di scarti emotivi fulminanti, lasciando a pochi bisbigli il compiti di rompere la centralità narrativa conferita ad un mutismo ostinato ed estenuante. L’estasi creativa dell’artista si concorda con il respiro antropologico conferito alla messinscena, che si evince, sia dal sottobosco di intrighi, tensioni e credenze superstiziose che popolano il mondo in cui vive e lavora, che dalla purezza dei canti popolari (cantati in presa diretta da Federica Ghezzi), che fanno quasi da sottofondo “storicistico” all’innovazione musicale del maestro a lavoro. Paolo Benvenuti sottrae piuttosto che aggiungere, la presunta storia d’amore tra Doria Manfredi e Giacomo Puccini, invece di essere caricata di contenuti che ne confermino o meno la pertinenza, viene “bressonianamente” spogliata di ogni orpello superfluo, fino a giungere ad una secchezza narrativa che non può che condurre all’unico finale possibile ed all’accertamento dell’unica verità riconoscibile. “Doria si è avvelenata col sublimato. Dopo cinque giorni di agonia ha chiesto di essere visitata morta. A decesso avvenuto, i medici hanno accertato che ella era pura”.      

“Puccini e la fanciulla” è il settimo film dell’autore pisano (di cui mi mancano i primi due “Frammento di cronaca volgare” e “Il bacio di Giuda”, letteralmente introvabili), che ho rincorso sin dalla sua uscita e che solo adesso sono riuscito a reperire. Attesa (e ricerca) non delusa, perché Paolo Benvenuti mi si è confermato come un autore importante il cui talento è inversamente proporzionale alla pubblicità di cui sono fatti oggetto i suoi film (solo “Segreti di Stato” è riuscito a scalfire il muro dell’oblio generalizzato). Destino strano che lo accomuna a quello di diversi altri cineasti (di ogni tempo e luogo), fagocitati dalle mode e dagli indirizzi “cinematografici” imposti dal mercato.  Nel mio piccolo, ho sempre cercato di promuovere il cinema di questo autore parco e raffinato. Non lesinando ad etichettarlo come un maestro di stile.

Concludo con una curiosità importante, le uniche voci che sentiamo in maniera nitida sono quelle degli operatori di macchina che annunciano l’inizio delle riprese del film e che noi udiamo sui titoli di testa. Un espediente che può passare facilmente inosservato, ma che a me ha dato il senso voluto dall’autore di rimarcare la centralità del cinema intesa come arte che sa raccontare storie in forma di saggio, che sa generare meraviglia intorno alle immagini che passano sullo schermo e creare immedesimazione con i personaggi più svariati. Insomma, che sa far aderire il realismo carpito dalle storie che si raccontano con quello della messinscena pur essendo un arte che si fonda su dei trucchi esibiti.        

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