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Funny Games

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Funny Games

di michemar
8 stelle

Haneke, come ne “Il Nastro Bianco” come ne “La Pianista” è inesorabile, tagliente, preciso e pulito. Non fa sconti, né allo spettatore né ai suoi attori. Durante la visione mi chiedevo quanta fatica psicologia e fisica costa agli attori recitare in quella maniera, quali strascichi lascia nelle loro vite e per quanto tempo. E in tutti i suoi film.

'Arancia meccanica' vista da Haneke. Sono due cose differenti, ma in entrambi i casi i  protagonisti negativi delle storie si divertono come matti - letteralmente – a compiere azioni efferate, con lentezza, senza l’assillo dell’arrivo improvviso delle forze dell’ordine. Ma se il romanzo di Anthony Burgess ci parla di sociologia e violenza giovanile in generale e Kubrick vi mescola elementi di thriller e lo arricchisce visivamente di colori forti, scene statico-fotografiche e musiche classiche manipolate, Haneke ci racconta la storia in maniera asciutta, schematica e senza fronzoli. Se il maestro americano mostra giovani come naturale prodotto della società inglese di quei tempi ribelli, quello austriaco invece sbatte sullo schermo due giovanotti di cui non si sa nulla, che vengono, prima ancora che dalla tappa intermedia della casa dei vicini, dal buio mentale delle loro vite; e spariranno poi nel loro buio passando dalla villa di vacanza di altri vicini, lasciando una scia di esasperata e spietata violenza, calma brutalità, sorridente malvagità e ricominciando ancora con lo steso trucco…..

 

 

Non c’è una logica nel comportamento di Paul e Peter, tutto si svolge come per un destino scritto e sceneggiato. La loro manifesta gentilezza, mostrata appena comparsi sulla scena, è troppo evidente e causa nella povera Ann e negli spettatori una immediata inquietudine, presagio di sviluppi imprevedibili-prevedibili. L’imbranataggine del primo giovanotto che compare fa venire subito sospetti, troppo maldestro Peter con le uova in mano: eccoli dunque all’opera con la loro prefazione preferita, il loro biglietto da visita, la richiesta in prestito di quattro uova per la famiglia della villa vicina dove sono ospiti (?).

 

 

Loro due compaiono nelle case come vediamo comparire solitamente in film horror i fantasmi o le anime vaganti e irrequiete in cerca di qualcosa che li soddisfi, che appaghi l’innata voglia di far male, di placare la sete di violenza e dolore altrui. Sì, perché non è sangue quello che cercano, il sangue ne è la semplice conseguenza; Paul e Peter amano soprattutto la sofferenza, il dolore (quante volte nei film di questo regista?), la crudeltà che infliggono ai loro padroni di casa. Ma attenzione, non c’è fretta e tutto si svolge con il sorriso, le battute spiritose, una certa cultura nel linguaggio, la cura nel prospettare i passaggi di una notte da passare assieme alla famigliola scelta per realizzare il loro efferato hobby. Usano guanti bianchi da golf, sport usato come argomento di conversazione e di voluto diversivo, ma è chiaro che servono ANCHE per non lasciare impronte. A loro ciò non importa molto, non si preoccupano di quello che lasciano e come lo lasciano, i guanti bianchi danno l’idea di chirurgico, di attrezzo di lavoro e quando Paul se li tira per calzarli meglio è segno che è in arrivo un altro momento di sofferenza, per i padroni di casa e per lo spettatore.

 

 

Haneke si rivela sempre nello stesso modo, ne “Il Nastro Bianco” come ne “La Pianista” come in questo caso: inesorabile, tagliente, preciso e pulito. Non fa sconti, né allo spettatore né ai suoi attori. Durante la visione mi chiedevo quanta fatica psicologia e fisica costa agli attori recitare in quella maniera, quali strascichi lascia alle loro vite e per quanto tempo. E in tutti i suoi film. Quelli citati prima e anche nella precedente versione di “Funny Games”, quella austriaca, dove lo stesso dolore fisico e mentale viene provato da Susanne Lothar e dal compianto Ulrich Mühe. Anche nella versione USA tutti gli attori sono bravi, con una menzione speciale per la solita e straordinaria Naomi Watts e per il piccolo Devon Gearhart da una parte, e per Michael Pitt dall’altra, attore a cui tocca essere sempre arrogante e antipatico. Provocatoria la scelta di far guardare lo spietato Paul nella macchina da presa per interloquire col pubblico un paio di volte: ci coinvolge ancor più.

 

 

Ogni volta che lo vedo mi riprometto che sarà l’ultima volta, poiché questo film fa star male, non capisco perché devo soffrire di nuovo (poi mi dico: è il cinema, bellezza!). Ma va visto, chi non lo conosce perde un piccolo capitolo della bellezza del cinema e di uno dei suoi eccellenti narratori: il grande regista di nome Michael Haneke.

Eccellente.

 

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