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Funny Games

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Funny Games

di chinaski
8 stelle

Le motivazioni che hanno spinto Michael Haneke a rifare il suo Funny Games del 1997 sono abbastanza chiare: arrivare a quante più persone possibili. Dice lo stesso Haneke – “Il primo film non aveva raggiunto il pubblico cui era destinato, ovvero il pubblico anglofono, che è quello che consuma di più la violenza al cinema”. Il regista austriaco sabota così una delle pratiche più commerciali del cinema americano, quella del remake. Rigira il suo film inquadratura per inquadratura (“Nel girare il remake mi sono posto un obiettivo del tutto inverso a quello abituale: anziché dedicarmi ad una creazione del tutto nuova, mi sono divertito a ricreare qualcosa che fosse il più identico possibile a una cosa già esistente”) utilizza attori famosi, Michael Pitt, Tim Roth, Naomi Watts (“Ho posto una sola condizione: che la protagonista fosse Naomi Watts, per me la pura incarnazione del personaggio”) e si affida al remake per diffondere il suo cinema altamente teorico e profondamente morale
Ma è ora di iniziare a giocare.
Perché, in Funny Games, Haneke gioca con lo spettatore. Certo, è un gioco sadico, a tratti insostenibile, ma pur sempre di un gioco si tratta. Ci sono dei ruoli e delle regole, che naturalmente è lo stesso Haneke a stabilire. Specularmente a questo c’è quanto accade all’interno della storia raccontata nel film. Una famiglia borghese (madre, padre, figlio e un cane) se ne va a passare le vacanze nella propria casa al lago. Ann e George sono molto benestanti (hanno una barca, la casa è enorme) e si assiste al loro normale arrivo. Ann inizia a preparare qualcosa per la cena, George e il figlio pensano a sistemare la barca.
L’entrata in scena di due ragazzi (vestiti di bianco, in pantaloncini, con i guanti) che precedentemente i due coniugi avevano visto nel giardino della casa di alcuni loro amici, inizia a trasformare la normalità di un finesettimana come tanti altri in inquietudine. Poi l’inquietudine si trasforma in incubo e infine l’incubo diventa realtà.
E questa è una parte del gioco che Haneke fa con lo spettatore. Il regista lo lascia sempre in bilico sul confine tra fiction e realtà. Lo spettatore entra nel film tramite i soliti processi di immedesimazione e ne rimane poi intrappolato in maniera atroce. Perchè lo sguardo che è costretto a sostenere è veramente difficile da sopportare. Perchè Haneke, espandendo i tempi filmici in maniera a volte insostenibile, lo incolla alle situazioni che mostra.
Verso la metà del film c’è un pianosequenza di circa dieci, quindici minuti in cui si è costretti ad assistere allo scoppio di dolore dei due adulti per l’uccisione del figlio (una sequenza che nell’originale è molto più forte e a cui la Watts non è riuscita a dare la stessa devastante intensità). Non ci sono tagli, non ci sono stacchi, non ci sono vie di fuga. Umanamente si vorrebbe fare qualcosa o per lo meno avere la possibilità (la pietas) di guardare da un’altra parte, ma è impossibile. Si è inchiodati sul dolore e allo stesso tempo si avrebbe voglia di allontanarsene, ma non si può fare, perchè ormai lo spettatore è dentro al film (si è immedesimato), è in quella stanza (grazie all’occhio della macchina da presa) e non può fare nulla per andarsene (almeno che non si alzi ed esca dal cinema e forse questa sarebbe stata la vittoria più grande di Haneke).
Ma torniamo al gioco.
Uno dei due torturatori ricorda allo spettatore, in alcuni momenti, che tutto quello che sta vedendo non è reale ma è pura finzione. Infatti fa l’occhiolino guardando in macchina oppure riavvolge il nastro del film per rimediare ad una cosa che non doveva assolutamente succedere. Ovvero la possibilità di una speranza. Perchè questo film è anche un viaggio verso la perfezione del sadismo e della violenza. Una perfezione che non deve essere contaminata da nessuna pietà.
Si potrebbe quindi riflettere sul fatto che ogni volta che si guardano (in televisione o su un giornale, per esempio) immagini violente o drammatiche si ha lo stesso atteggiamento di quando si vede un film. Si scambiano le immagini reali di un dramma con quelle ricostruite di una finzione. E per questo non si prova niente quando uno le guarda, perché ci si sente protetti, a distanza. Si pensi anche a tutto il cinema che ha fatto proprio della violenza un semplice intrattenimento.
Spiega Haneke – “Cerco di mostrare la violenza per come essa è davvero: una cosa difficile da mandare giù (e sulla stessa linea di pensiero si trova il Cronenberg di A History of violence e Eastern Promises). Voglio mostrare la realtà della violenza, il dolore, le ferite inflitte da un essere umano a un altro”.
Ma il regista austriaco, continuando il suo gioco, va addirittura oltre. Perché per tutto il suo film non fa vedere mai direttamente la violenza, non cerca immagini ad effetto, spesso la mette fuori campo e decide di mostrarcene solo le atroci conseguenze.
Nel pianosequenza di cui si parlava prima, un altro spettatore dell’intera scena è la televisione. Haneke scambia i ruoli, mentre nella maggior parte dei casi siamo noi ad assistere alla violenza tramite la televisione, in questo caso è la televisione che assiste alla violenza (che esplode nella stanza) con la sua perenne indifferenza (trasmette infatti una gara automobilistica). E Ann la prima cosa che fa, una volta liberatasi (e ricordiamo che suo figlio è con il cervello spappolato a pochi centimetri da lei) è quella di spegnere il televisore per far tacere quel rumore inutile. Per racchiudere di nuovo la realtà (la sua realtà) in quella sola stanza dove l’orrore ha preso forma e dove il dolore deve ancora riuscire a farlo.
La televisione che tante volte ha mostrato la sofferenza altrui diventa una presenza mostruosa che nega con il suo stesso essere in quella stanza e la sua fredda meccanicità quelle emozioni che invece lo spettatore sente espandersi dentro di lui.
Si passa in continuazione dal massimo grado di immedesimazione (che fa soffrire) al massimo grado dello straniamento (che però non dà nessun sollievo). Perché l’incubo continua e come un teorema matematico deve arrivare alla sua logica conclusione.
Haneke quindi tortura psicologicamente anche lo spettatore facendolo partecipe e complice (lo spettacolo sadico è solo per lui) delle immagini che sta guardando.
Anche i rapporti tra i vari personaggi sono abilmente costruiti per creare conflitti nella mente dello spettatore e portarlo quindi a pensare. I due sadici, Paul e Peter, sembrano ragazzi riservati e molto educati e soprattutto Paul ha un gran senso dell’umorismo. Ma sono anche galciali nel perpetuare le loro torture (i “funny games” del titolo). E cosa ancora più inquietante sembrano non aver nessun motivo per agire in questo modo (Paul che si inventa delle ragioni che possano piacere a George), se non un’atroce scusa, quella dell’ intrattenimento. Paul e Peter sembrano due attori di un teatro delle crudeltà che trasformano la loro performance in una serie di azioni (più che realistiche) finalizzate all’aggressione e alla tortura dei membri della famiglia che hanno preso in ostaggio. Membri che paradossalmente sono stati i primi a ricorrere alla violenza (verbale, psicologica, fisica) per cacciare via di casa, all’inizio, i due ragazzi.
Funny Games lascia spaesati e attoniti (soprattutto chi lo vedrà per la prima volta) e fa riflettere in maniera vigorosa sul ruolo delle immagini nel nostro tempo. E su quello dei media attraverso i quali le assorbiamo e le consumiamo.
Basandosi su una morale che punta dritta ad una purezza inversa rispetto a quella a cui si è abituati (come si diceva la ricerca di un sadismo assoluto) Haneke fa pensare a quanto poi nella vita di tutti i giorni (nella nostra realtà) essendo perennemente spettatori del dolore altrui non si faccia mai niente per cercare di alleviarlo.
Ma se all’interno della fiction è la libertà espressiva e comunicativa dell’artista a farsi portavoce (anche tramite atrocità e torture) del suo mondo e delle sue idee è bene ricordare che nella realtà, nel mondo reale, dovremmo essere noi uomini i soli responsabili di quanto accade.
Senza nasconderci dietro la maschera anonima dello spettatore che, guardando, non ha il potere o la forza di agire.
Basterebbe semplicemente staccare lo sguardo dallo schermo (qualsiasi schermo) e soffermarsi per un attimo su quanto continua ad esistere intorno a noi.
Non più un gioco.
Ma la cruda realtà.

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