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American Gangster

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su American Gangster

di nickoftime
6 stelle

Ridley Scott è l’autore di alcuni capolavori (The Challange, Alien, Blade Runner, I signori della truffa) e di una serie di altri film, a cui “American gangster” appartiene, che sono il frutto di un professionalità al servizio delle grandi produzioni. Un “Autore di ventura” che si cimenta nel cinema di genere con la disinvoltura di chi non crede ai suoi poteri taumaturgici e preferisce godersi lo spettacolo, allestendo giardini d’infanzia, dove il demiurgo/narratore accompagna il bambino spettatore sulla strada dell’omnicomprensione. Un produttore come Brian Glazer (A Beautiful mind, Cinderella man) che confeziona spettacoli d’autore, calandosi nelle aspettative di una mente che si nutre di curiosità da rotocalco e sapere enciclopedico, e gli organizza un tranquillo week end di paura a lieto fine, a base di star hollywoodiane e storie fotocopia, in cui il motivo estetico prevale sui viaggio al termine della notte. La santa alleanza fra regista e produttore dà vita al solito filmone dove i Gangster sono sempre in buona fede e gli sbirri come Crowe, sempre più simile ad una versione riveduta e corretta di Sylvester Stallone, hanno l’asso da gettare sull’indagine scommessa. L’america è di tutti e di nessuno, una zona di guerre infinite e mai dichiarate, più cruente di quelle politiche e mediatiche perché l’avversario da combattere siamo noi e l’unico antidoto è il sogno americano inacidito dall’integralismo del successo. Si sente la mano di Glazer nella struttura filmica che appare, rispetto ai “ritmi action” del regista , quasi ferma, distesa e più votata alla ricostruzione delle situazioni che non sono mai svincolate dal momento contingente. Il periodo storico (il decennio a cavallo tra i 60 e 70) deflagra sullo schermo con un tripudio di suoni e di colori (caldi e virati al passato nella prima parte, plumbei ed asettici nella seconda, dove la resa dei conti finale è enfatizzata da un movimento di macchina che sembra lo spasmo di un corpo senza vita) ed appare, grazie alla fotografia Zodiacale di Savides, funzionale alla materiale narrativo. Le strade periferiche, dove la lotta per la vita chiede il conto in maniera più evidente, gli Slum dei quartieri dormitorio, latrine a cielo aperto per esseri umani che sembrano strisciare, così come il confronto tra i metodi, quello di Washington moderno e razionale, quello di Crowe, impressionista e debordante, si ispirano in maniera evidente ad un capodopera come The French connection di W Friedkin (la cui visione si consiglia caldamente) mentre il duello allo specchio (e solo quello) dei due antagonisti, rimanda, nella sua struttura binaria ad Heat di Mann. Purtroppo il paragone risulta impari perché il film si mantiene con “coscienza” sulla superficie delle cose, preferendo una forma che parla agli occhi ma non al cuore, affascinando con un divismo che si oppone ala veridicità della storia, (la forza dell’anti-eroe friedkiniano derivava da una presenza attoriale non avulsa dall’ordinario della gente comune) e finisce per annullare il bagaglio emotivo/esistenziale dell’uomo che non vuol credere al mito di Sisifo.

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