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Rocky Balboa

Regia di Sylvester Stallone vedi scheda film

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La recensione su Rocky Balboa

di lussemburgo
8 stelle

Sulla carta, l’ultimo episodio della saga di Rocky sembra un film fuori tempo massimo, la tipica operazione commerciale priva di interesse che recupera un personaggio pressoché dimenticato per risollevare le quotazioni di un attore quasi decaduto, un tentativo di archeologia cinematografica di stampo meramente mercantile. Eppure, l’epilogo della esalogia dello “stallone italiano” possiede molti elementi a suo favore.
Stallone, che ha ripreso la regia della serie dopo Avildsen (autore del primo e del quinto episodio, già apparentemente conclusivo), non opera nessuna trasformazione del protagonista; anzi, lo riporta alle origini, a quei bassifondi proletari in cui aveva avuto i natali, aggiornandone l’età anagrafica e mitigandone le ambizioni. Tutto in Rocky è anacronistico, il personaggio stesso, la vita già vissuta, il successo ormai svanito: Adrian è morta e il figlio affettivamente lontano. Gli rimangono i ricordi, l’assillante cognato e un ristorante dove ripetere e rivivere per spettatori sempre nuovi le stesse storie, gli aneddoti di una carriera conclusa. Mesto e malinconico, il film si adegua al personaggio e riflette le vicende stesse dell’attore, dopo i fulgori degli anni reaganiani e il dimenticatoio del presente. Il peso del passato, con il suo scorcio di serenità e gloria, è un fardello asfissiante, un carico eccessivo che infligge, per contrasto, una dolorosa impotenza. Le voci delle persone che lo riconoscono e salutano un indistinto sardonico coro, le copertine e i ritagli dei giornali un semplice addobbo sulle pareti. La sua statua è stata rimossa dalle famose gradinate, la sua icona è sgranata, il simbolo smesso.
Quasi tutto il film è occupato dal solo protagonista e dai suoi dolori, dal rancore per l’infelicità attuale, dalla nostalgia della vitalità antica e l’insana voglia di ritrovare un senso, sanare il dolore, mitigare la lenta morte e il freddo circostante. Perché siamo di fronte ad un crepuscolo, un film che si apre e termina al cimitero sulla tomba della moglie, abitato da uno spettro massiccio di un ex-pugile che ha attaccato i guantoni al chiodo e indossato i vecchi abiti degli esordi, che vive negli stessi luoghi da cui ha preso le mosse, tra i fantasmi di una città abbandonata e fatiscente che non si è aggiornata alla modernità, un protagonista che ripercorre la via crucis delle celebrazioni funebri dei posti e delle persone che gli sono stati cari e di cui soltanto il ricordo non si è estinto. E il film, scritto dallo stesso Stallone, non lesina crudeltà masochistiche, scava a fondo nel ridicolo e nel confronto dell’inglorioso presente con i defunti splendori. La recitazione ironicamente stonata e scontrosa di Stallone, il suo stesso corpo si adattano adeguatamente al tono dimesso dell’intero film, ad una lotta interiore contro la vecchiaia e l’infelicità e che si esprimerà e paleserà sul ring solo perché quello è il terreno noto al personaggio, i pugni sono l’alfabeto che conosce, il sudore e la sofferenza fisica l’unico stimolo a superarsi.
Un gioco del destino lo vede di nuovo protagonista, in uno scontro simulato con Mason Dixon, il campione del mondo. In un film del tutto alieno dal parossismo digitale della produzione americana coeva, solo nella simulazione al computer di uno scontro impossibile trova spazio l’input iniziale della trama, in una scommessa impresentabile che rasenta il ridicolo. È la finzione funzionale alla narrazione, al ripristino dei meccanismi della serie la cui valenza virtuale imprime al film e alla vicenda del protagonista una virata di improbabile e altrimenti improponibile vitalità.
Solo così Rocky Balboa torna ad essere un episodio della saga nota, l’allenamento viene sintetizzato in crescendo secondo gli schemi abituali, il ring conquista infine il proscenio. Il vero film termina però con lo scontro, inverosimile e risibile, tra il campione in carica, ormai demotivato, e il vecchio pugile, in pensione ma mosso dalla volontà di vivere e soffrire per superare il dolore ormai interiore. Sul quadrato e tra le corde la sintassi cinematografica lascia spazio alla volgarità televisiva e la pellicola riversa i suoi toni scuri e nostalgici nell’impersonale luccichio tecnologico di Las Vegas, il film diventa la telecronaca di un incontro impossibile.
Ma anche durante il duello fisico, Stallone predilige un punto di vista soggettivo, evita la magniloquenza spettacolare di Rocky III o la retorica anabolizzata di Rocky IV. Squarci allucinati di ricordi e immagini dal passato cinematografico si frappongono ai pugni, mentre il bianco e nero irrompe sullo schermo, interrotto dal rosso del sangue o dal giallo delle decorazioni, la stilizzazione si fa allucinazione, il presente della telecronaca sportiva diventa un vocio ridondante, assordante, confuso, estraneo. Rocky rivive rivedendo la vita trascorsa, e solo in quella trova la forza per far riemergere l’orgoglio e la dignità con cui accomiatarsi degnamente dal pubblico, l’energia per un colpo di coda finale. Non c’è un progetto futuro, non una carriera da difendere, né il tentativo comunque vano di rivitalizzare stentatamente i giorni di gloria. Ma solo la necessità di seppellire definitivamente il passato e riscoprire una latenza di felicità, eclissarsi con un bagliore senza spegnersi lentamente per contingenze imposte in un ultimo atto da consegnare con decoro. E un film che trova la forza sorprendente di commuovere.

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