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Five Fingers - Gioco mortale

Regia di Laurence Malkin vedi scheda film

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La recensione su Five Fingers - Gioco mortale

di spopola
6 stelle

Five Finges potrebbe essere liquidato adesso come uno dei tanti film che si sono accostati a temi che al momento in cui fu prodotto e distribuito, erano di fortissima attualità, addirittura “centrali” per l’immaginario collettivo, quali la guerra all’occidente, la globalizzazione, il terrorismo (il cosiddetto scontro fra due Civiltà contrapposte e ormai impegnate fra di loro in una lotta all’ultimo sangue e senza esclusione di colpi, insomma). Pur se più “sfumate” che nel 2005 quando eravamo praticamente “a ridosso” della tragedia delle Torri Gemelle, lo sono indubbiamente ancora, ma hanno forse perso un po’ della capacità che avevano di porsi in assoluto primo piano suscitando inquietudini difficilmente contenibili come accadeva in quegli anni, anche perché ormai Bin Laden è stato eliminato, e il suo sparire dalla scena ha un po’ tutto ridimensionato, per fortuna. C’è comunque dentro anche una problematica strettamente legata a Internet e all’“infido” utilizzo che ne può essere fatto, che rende di un qualche interesse il riprendere in esame una pellicola come questa (prematuramente “invecchiata” devo dichiararlo subito) per una  revisione meditata che non gioca certo però a suo favore (non è insomma come “il buon vino” che il tempo rende migliore se conservato nelle botti buone).
Semplificando, potrei definirla una “furba” operazione commerciale  per “cavalcare l’onda” (anche se il riscontro al botteghino almeno qui in Italia non fu dei più soddisfacenti) che, mettendo insieme tanti temi “scottanti”  come quelli sopra evidenziati, li riadattava un poco (o ancora meglio, li utilizzava ai propri fini) inserendoli in un thriller psicologico (di quelli che si definiscono in genere “ad alta tensione”), che si nutre principalmente della angosce e delle diffidenze della contemporaneità, mischiando dentro il calderone (non sempre in maniera egregia) tutta quella materia incandescente “letta” e reinterpretata all’insegna della guerra preventiva tanto cara a Bush e soprattutto all’ipotesi del Grande Complotto, il tutto coordinato con scansioni millimetriche di impianto che potrei definire quasi chirurgiche (intese come “precisione”) e con modalità  sottilmente allarmanti, ma inesorabilmente  “condito” in “salsa multiplex” (circuito d’elezione per pellicole di simile fattura) che come ben sappiamo, risulta spesso un po’ insipida e abbastanza indigesta.
Per fortuna a salvare parzialmente la barca da un possibile, totale naufragio, intervengono gli attori  tutti molto bravi, fra i quali si distingue l’eccellente prova di Laurence Fishburne (anche produttore), in gran parte chiamati a interpretare identità e nazionalità diverse dalle proprie, forse per intorbidire un po’ più le acque, che hanno l’oggettivo merito  di dare all’insieme una solidità professionale e una “credibilità” dei fatti di tutto rispetto, che ci consente di classificarlo anche adesso questo film come un discreto prodotto medio,  pur senza eccessivi guizzi (e nemmeno sufficientemente “spettacolare”, per sua disgrazia, visto il tipo di pubblico che intendeva “agganciare”, ma con alcuni momenti di forte, sconvolgente impatto), salvandolo dall’inevitabile “mediocre” che altrimenti si sarebbe guadagnato.
Quasi tutto in interni (e per la maggior parte girato in un unico ambiente) gioca le sue carte migliori puntando sui frequentissimi colpi di scena, che ribaltano spesso ciò che sembrava già acquisto (e non sempre nel totale rispetto di una ferrea logica).
Protagonista della storia è  Martijn (un convincente Ryan Philippe), giovane olandese pieno di ideali (di professione bancario, ma pianista per “vocazione artistica”) in trasferta marocchina  per avviare un’organizzazione umanitaria a tutela dell’infanzia malnutrita, accompagnato nel viaggio dalla cinica guida (Colm Meaney) che ha il compito di aiutarlo ad orientarsi nella nuova realtà territoriale.
Non faranno in tempo ad arrivare in Marocco e a salire sul pullman che dovrebbe portarli a destinazione, che verranno immediatamente rapiti da una misteriosa organizzazione appartenente ad una dichiarata “cellula” terroristica di “neri”, guidata dall’elegante, raffinato e sadico Ahmat (Laurence Fishburne, appunto). Una situazione imprevista  che pone il giovane volontario al “centro” del ciclone,  con una prospettiva che diventa sempre più ingarbugliata (un po’ come accadeva, ma con altra levità di tocco, con Hitchcock e il suo  “classico” Giovane e innocente) che da una posizione sbigottita del domandarsi le ragioni di tale rapimento, fanno  prontamente passare lo spettatore a quella più dubitativa, con incertezze sempre più incalzanti che lo assalgono,  in relazione a quella che “potrebbe” essere la vera identità dell’uomo, e gli effettivi obiettivi tutt’altro che filantropici, ma più “privati” e personali, di quella sua trasferta africana. I cambi di prospettiva sono molteplici, ed utilizzano meccanismi consolidati e ben oliati (un po’ alla I soliti sospetti, tanto per intenderci, film che ha fatto scuola in questa direzione), ma ahimè ormai anche un tantino risaputi e per questo meno “efficaci”.
La suspense, concentrata nei claustrofobici spazi dell’ambientazione, funziona comunque egregiamente (anche se la matrice è più teatrale che cinematografica), soprattutto grazie al sovvertimento delle impostazioni di partenza, prima con le sibilline allusioni (che si  trasformano in minacce) dell’arabo, che mostra di conoscere tutti i particolari della vita del prigioniero, e successivamente, con l’entrata in scena di una  fin troppo caritatevole infermiera che si rivelerà più interessata a carpirne i segreti o ancor più a impugnare ed utilizzare con imperturbabile padronanza,   seghette e tronchesi, che a praticare il suo apparente mestiere.
Ma il mistero è destinato ad ampliarsi ancora a causa di un milione di dollari di oscura provenienza che viene prontamente tirato in ballo e per la figura di Saadia, splendida, dolcissima ragazza immigrata in Olanda, che diventa in qualche modo prioritaria per il  rapporto sentimentale che la lega a Martijn, pur confinata, come presenza reale, solo nei frequenti flashback mnemonici, utilizzati per scandire le fasi di questa discesa agli inferi, ma decisamente spesso fuori “sintonia” per un eccesso di didascalismo enfatico.
Non è il caso di svelare come si scioglieranno alla fine i nodi (non si può fare per opere come questa senza rischiare di essere linciati, anche se a mio avviso non c’è poi alla fine  molto da scoprire e soprattutto di che “sussultare”). Possiamo quindi dire che il film è tutto qui o quasi, in parte concentrato sulla sfida a scacchi forzatamente imposta da Ahmat al giovane rapito, un elemento questo che intende assumere anche una valenza dichiaratamente metaforica. E la morale? - Direte voi -  Quella dove sta? Mah… forse nell’indicare che c’è un’ambiguità di fondo in ogni cosa, o magari, come ha scritto invece Mario Mazzetti, che il film intende essere un avvertimento più che un teorema, che intende suggerirci che non ci si deve mai fidare della Rete (vedete che anche Internet c’entra qualcosa e che non mi ero sbagliato a citarla  in apertura?).

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