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A History of Violence

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su A History of Violence

di maldoror
8 stelle

Tutte le tematiche tipicamente cronenberghiane - la riflessione sull'identità, sulla linea di demarcazione che separa l'uomo dall'animale (vedasi "La mosca"), sulla mutazione genetica causata da un virus (Tom/Joey) all'interno di un corpo (la famiglia del protagonista) - riproposte con una nuova estetica solo apparentemente più convenzionale.

Cos'è la violenza? Forse soltanto l'espressione del nostro innato istinto di autoconservazione, della nostra parte più animale e primordiale.

Questa parte, Tom Stall sembra averla rimossa, allontanata da sé. Ma un bel giorno, di fronte a due uomini fatti di pura violenza, che minacciano non solo la sua vita ma anche quella di una sua amica e dipendente, ecco che Tom reagisce istintivamente: è a quel punto che Tom svanisce per far (ri) emergere Joey, il vero sé stesso. Ed è qui che riemerge anche l'antica ossessione cronenberghiana (ma anche kafkiana) sul punto in cui finisce l'animale e in cui comincia l'uomo: "io sto dicendo che sono un insetto che aveva sognato di essere un uomo, e gli era piaciuto. Ma ora il sogno è finito e l'insetto è sveglio", diceva il Brundle-fly de La mosca. Qui pare succedere la stessa cosa: Joey aveva sognato di essere Tom Stall, ma, dopo l'aggressione alla tavole calda, l' "insetto" Joey si è svegliato dal sonno, e il "sogno" Tom Stall è svanito d'improvviso. Forse Joey non è neanche un'identità vera e propria, ma un grumo di pulsioni primordiali e animalesche (viene fatto riferimento più volte alla "follia" del vecchio Joey, criminale che ha cavato un occhio al suo rivale col filo spinato). Joey, forse, non è altro che l'Alex di "Arancia meccanica": l'inconscio dell'Uomo, il puro piacere della violenza.

In fondo, "A history of violence" non fa altro che riproporre la classica tematica cronenberghiana: c'è un virus che modifica il DNA producendo la mutazione genetica di un corpo: in questo caso il virus è Tom/Joey, il corpo è la sua famiglia. La famiglia di Tom, infatti, è costretta a subire una mutazione quando non riconosce più l'identità del capofamiglia, ovvero della molecola di DNA che le dava un'identità, una forma: il figlio che, all'inizio, rifiuta la provocazione del bullo, dopo aver scoperto la vera identità del padre decide di dar sfogo ai suoi istinti primordiali e di picchiare il provocatore; la moglie, che in una delle prime scene del film proponeva al marito una fantasia erotica maliziosa ma innocente (fare sesso vestiti da teen-agers) adesso accetta un rapporto sessuale con Joey, un rapporto violento che le lascerà lividi ed escoriazioni.

Sino ad arrivare al finale: Tom/Joey torna a casa dopo aver ucciso il fratello (William Hurt) e, con esso, tutto ciò che lo teneva legato alla sua identità di Joey. Mentre tutti i membri della famiglia hanno nel proprio piatto una fetta di polpettone che si accingono a mangiare, Tom/Joey si avvicina alla tavola, il figlio poggia sul suo piatto il polpettone intero come invitandolo a tagliare anche lui la sua fetta e, quindi, a rientrare nelle grazie della famiglia. Ma a quel punto, mentre la moglie lo guarda piangendo, chiedendogli con gli occhi se sia disposto a dimenticare le ombre del passato, Tom/Joey si rende conto di aver ucciso per sempre Joey e che, al tempo stesso, sia lui che la famiglia sanno che Tom Stall era solo un'identità fittizia (forse, in fondo, come tutte le identità?): ed ecco quindi che il film si chiude sullo sguardo smarrito e pieno di angoscia di Viggo Mortensen che, rivolgendosi alla moglie, le chiede "e adesso io chi sono? Chi dovrei essere, chi volete che io sia?".

"A history of violence" è un film pienamente cronenberghiano, in cui riecheggiano tutte le tematiche care al regista, soltanto con una nuova estetica: il linguaggio filmico è essenziale, non ci sono più mutazioni fisiche raccapriccianti né mostri reali o immaginari: la messinscena del regista è diventata ormai essenziale fino alla pura osservazione fenomenologica: lo stesso Cronenberg ha sempre detto di voler girare "come Robert Bresson", con uno stile asciutto, freddo e trattenuto. "A history of violence" segna l'inizio di una breve fase della carriera del regista canadese (che con "Crimes of the future" è tornato al suo immaginario classico, ma forse non necessariamente con la stessa autenticità e potenza espressiva di "Videodrome" o de "Il pasto nudo") in cui le ossessioni che hanno sempre percorso il suo cinema si sono espresse con un linguaggio filmico apparentemente più convenzionale del solito.

Solo apparentemente però, perché già "Maps to the stars", forse il suo film più sottovalutato, era già Cronenberg al 100%.

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