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La febbre

Regia di Alessandro D'Alatri vedi scheda film

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La recensione su La febbre

di Aquilant
6 stelle

Peccato, peccato davvero che Giorgio Gaber sia passato a miglior vita già da un paio d’anni. Avrebbe sicuramente plaudito a questa mordace febbre italiota che consuma e divora non tanto Fabio Volo che nel bene e nel male riesce pur sempre a barcamenarsi tra la magnetica Valeria Solarino ed un esercito di cani randagi, bensì l’idea stessa di un’Italia tanto cara ai custodi di una tradizione clientelare che ha dominato la scena italiana in lungo ed in largo per quasi cinquant’anni. - ”Mi scusi Presidente non è per colpa mia ma questa nostra Patria non so che cosa sia. Mi scusi Presidente se arrivo all'impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza.” - Così recita il rimpianto cantautore milanese in una delle sue ultime performance e di rimando l’oculato Mario Bettini non trova di meglio che restituire la sua carta d’identità con inclusa la cittadinanza italiana ad un improbabile presidente della repubblica, il quasi novantenne Arnoldo Foà, decisamente a suo agio in una parte pur sempre di grande responsabilità, oseremmo dire, anche in questi tempi di prove generali di premierato.
Dopo il fallimentare “Giardini dell’Eden” e l’ottima prova di “Casomai” Alessandro D’Alatri riesce a centrare soltanto parzialmente un nuovo traguardo con una “febbre” d’invidia di provincia intinta nell’amaro calice di una denuncia sociale espressa in modo drastico e perentorio, ma priva di adeguate soluzioni alternative da opporre a situazioni di malcostume clientelare da Prima Repubblica ed a reiterati abusi di potere e prevaricazioni di classica marca destrorsa sul posto di lavoro. Non convince affatto il gesto di autoesclusione da un mondo marcio ed ottuso fino alle midolla ma forse passibile di qualche cambiamento con lo sforzo comune di gente di buona volontà in grado di rimboccarsi adeguatamente le maniche. Ed il ritorno al cascinale di campagna è in odore di comune hippy e di mito della famiglia allargata molto trendy negli anni ’60.
Un passo indietro rispetto a quell’accattivante racconto a tesi che risponde al nome di “Casomai”? Forse, specie in virtù di una serie di effettistici siparietti onirici digitalizzati senza capo ne coda che contribuiscono a spezzare un ritmo già di per sé non esaltante e ad appesantire oltremodo una narrazione fin troppo giocata su concatenazioni di causa ed effetto. Ma questa “febbre” dalla sintassi filmica a tratti disgregata possiede altre frecce al suo arco e si fa voler bene specie nei vivaci quadretti d’interni che descrivono scene di vita familiare più o meno “gridata” e negli scoppiettanti siparietti bandistici e corali che spezzano a sorpresa l’andamento altalenante del film. Per non parlare dei due protagonisti, un Fabio Volo sempre meno iena e più capro (espiatorio) cimiteriale, dalle spiccate doti artistiche in progressione ascendente ed una Valeria Solarino da brivido, da tenere d’occhio non soltanto per la sua indubbia avvenenza. E poi, parliamoci chiaro, quell’interminabile piano sequenza all’inizio del film ci toglie letteralmente il fiato!












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