Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Una volta, molti decenni fa, soprattutto ma non solo nel cinema hollywoodiano c’era una sorta di genere al quale era concesso tutto, sia narrativamente che stilisticamente. Si chiamavano “women’s films” e il genere in realtà era il mélo, ma a differenza di altri melodrammi questi si buttavano a capofitto nella psiche femminile, esaltandone gli eccessi, materializzandone i desideri e gli incubi, mettendo sullo stesso piano l’inattendibile e il verosimile. Era il cinema di Sirk, Minnelli, Stahl, Powell, con i loro deliri, e di Fassbinder (nonostante lo stile volutamente spoglio). Ferzan Ozpetek con Cuore sacro azzarda un’operazione su quella linea: mescola miracoli e ossessioni familiari, voci e figure da dentro (i “fantasmi” che tornano a guidare la protagonista) e volti dal sottosuolo (i nuovi poveri che tentano ancora di darsi un contegno e i più poveri dei poveri, che non si vergognano), immagini sacre (la Pietà evocata da Irene che sorregge il barbone) e consolazioni profane (Irene che dorme coperta dal fastoso abito fucsia della madre), in un andirivieni incessante tra dentro e fuori, esposizione pubblica e sabbie mobili interiori. Certo, la spiegazione clinica della storia di Irene (manager spietata che una serie di eventi conduce a rinnegare il suo mondo) è un esaurimento nervoso ai limiti della follia; mentre la motivazione morale è la nostra immobilità davanti all’immoralità del nostro mondo. Ma in questo film tutto al femminile, fatto di zie ferree (Lisa Gastoni, cinica fino all’osso, ed Erica Blanc, complice svagata e rinunciataria) e di madri che non hanno mai svelato il loro mistero, di donne povere che rivendicano la loro dignità (la mamma di Benny, quelle che accettano la carità di Irene) e di signore che sanno compiere gesti forti e morali (Anna Maria nella prima scena fulminante, la psichiatra), di bambine volitive e sfuggenti, c’è qualcosa di altro rispetto alle spiegazioni razionali ed etiche. C’è una montata di emozioni compresse e sotterranee che travolgono l’esistenza “normale”. Ci sono due vite (e forse molte di più) che collidono l’una con l’altra fino a confondere le loro sembianze. Ci sono due case, una perfetta, gelida, fatta di vetro e di bianco, dove solo una piscina e un albero offrono un senso di protezione, e l’altra decadente, polverosa, labirintica, dove ogni ombra ha una vita e ogni oggetto un passato, dove ci si può nascondere, in attesa che la parte sepolta del cuore ci parli, ci dica chi siamo veramente e ci aiuti finalmente a esserlo. Ma la verosimiglianza è davvero così importante?
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