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Che la festa cominci...

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su Che la festa cominci...

di degoffro
8 stelle

Rec breve

E' possibile realizzare un film storico cinico, amaro, attendibile ma al contempo estremamente divertente, piccante e moderno, lontano da vuoti e pedanti accademismi? Bertrand Tavernier ci riesce alla grande. Il regista fa un omaggio dichiarato ai film storici di Freda e Comencini, dà al film un ritmo scanzonato e vivace grazie al sapiente uso della macchina a mano, mette in scena con sontuosa e divertita eleganza una sarcastica, goliardica e velenosa critica ad un potere (temporale e spirituale) che si compiace e si trastulla nei suoi vizi, agi e peccati, sbeffeggiando i poveracci e i miserabili con sfacciata arroganza. Scritto divinamente dal regista con Jean Aurenche, zeppo di dialoghi formidabili, con diverse scene magistrali (l'incipit, la sequenza dell'arresto di Pontcallec, la festa finale con l'arrivo di "Miseria, Disperazione e Delitto") ed un finale davvero ispirato. Con una forza morale e una attualità sorprendenti. E' vero: è all'altezza di "Barry Lindon". Scostumato.

Voto: 8



Francia 1719, quattro anni dopo la morte di Luigi XIV. Essendo Luigi XV ancora bambino, il potere è nelle mani del reggente Filippo d'Orléans, amante della vita lussuriosa e godereccia, tra feste mascherate, tavole imbandite, prostitute compiacenti a rallegrare orge disinvolte. Al suo fianco lo scaltro abate Dubois, suo ministro nonché principale consigliere, la cui massima aspirazione è essere nominato cardinale, pur non essendo stato probabilmente nemmeno battezzato (la scena in cui impreca sull'altare mentre un sacerdote gli insegna i fondamentali per la celebrazione di una messa è esilarante e buffonesca). A chi gli domanda: "Perdonatemi abate, ma perché un uomo della vostra intelligenza tiene tanto alla mitra?" replica: "Mi avete chiamato abate: questa è la risposta!" Pur di raggiungere il suo scopo Dubois, finanziato con i "soldi protestanti" degli inglesi, fa catturare il marchese di Pontcallec che, desideroso di proclamare la Repubblica di Bretagna, mira a organizzare, con l'appoggio degli spagnoli, una vera rivoluzione. Peccato che al suo fianco rimangano solo tre lancieri e i suoi sogni di gloria si tramutino ben presto in una ridicola beffa. A Dubois però non interessa il fatto che nessuno "ha mai preso sul serio quel folle di Pontcallec!". Non bisogna sminuire agli occhi del popolo la sua impresa: "Questo complotto era gigantesco. Abbiamo represso un fenomeno eccezionale!". Pontcallec e i suoi uomini devono essere giustiziati e si deve dare all'evento il massimo risalto: "Di cannoni ne voglio 12!" sentenzia Dubois. L'episodio però incontra l'orrore di Filippo che si batte invano per concedere la grazia a Pontcallec salvo poi manifestare tutto il suo disprezzo verso Dubois. E intanto sullo sfondo iniziano a emergere le prime avvisaglie di una non lontana rivoluzione, mentre l'aristocrazia trasferisce tutti i suoi denari in Svizzera. E' possibile realizzare un film storico cinico, amaro, attendibile ma al contempo estremamente divertente, piccante e moderno, lontano da vuoti e pedanti accademismi? Bertrand Tavernier, dopo l'ottimo esordio con "L'orologiaio di Saint Paul" ci riesce alla grande. Affidandosi, come per il primo film, a Philippe Noiret e Jean Rochefort (esemplari) affiancati da un eccellente Jean Pierre Marielle (poi ancora con il regista in un doppio ruolo nel cult "Colpo di spugna"), senza dimenticare la dolce Christine Pascal (poi sceneggiatrice e interprete per il regista del poco noto "I miei vicini sono simpatici"). Parodiando Sergio Leone il regista ha detto che il sottotitolo del film avrebbe potuto essere: "Il liberale, il cinico, l'idealista e la puttana". E i quattro personaggi principali sono dipinti con felicissima mano così come magistrale è il modo in cui il regista cattura lo spirito depravato, dissoluto e libertino di un'epoca che volge al tramonto. Tavernier fa un omaggio dichiarato ai film storici di Freda e Comencini, dà al film un ritmo scanzonato e vivace grazie al sapiente uso della macchina a mano, mette in scena con sontuosa e divertita eleganza una sarcastica, goliardica e velenosa critica ad un potere (temporale e spirituale) che si compiace e si trastulla nei suoi vizi, agi e peccati, sbeffeggiando i poveracci e i miserabili con sfacciata arroganza come nella sequenza della festa dove la prostituta Emilie ha un sussulto di pietà per quei contadini derisi senza ritegno e rispetto. Scritto divinamente dal regista con Jean Aurenche, traendolo dal poco noto romanzo "La figlia del reggente" di Alexandre Dumas contaminato tra l'altro con testi di Saint Simon ("Mémories"), Michelet ("Histoire de France"), Philippe Erlanger ("Le regent"), Pierre de la Condamine ("Pontcallec, une étrange conspiration au coeur de la Bretagne") e André Ransan ("La vie privée du Régent"), zeppo di dialoghi formidabili ("La miseria non rende il contadino fratello del nobile. Anche se sono due pezzenti, la loro pezzenteria è diversa!" dice Filippo), con diverse scene magistrali (l'incipit, la sequenza dell'arresto di Pontcallec, la festa finale con l'arrivo di "Miseria, Disperazione e Delitto") ed un finale davvero ispirato. Con una forza morale e una attualità sorprendenti. Ad un certo punto il reggente infatti si domanda malinconico ma lucido: "Cosa si dirà di noi quando non ci saremo più? Cosa resterà del nostro passaggio?" Forse rimarrà soltanto quell'"odore di putrido" che lo tormenta e lo angoscia alla fine dell'ennesima festa tanto da spingerlo ad amputarsi la mano. Se la messa in scena grottesca, beffarda e volutamente quasi caricaturale sembra anticipare il capolavoro successivo del regista "Colpo di spugna" - e la battuta che Emilie fa a Filippo sul fatto che "Voi non amate la depravazione bensì il rumore che fa!" sarebbe perfetta anche per il protagonista Cordier nell'opera tratta da Jim Thompson - (tra l'altro, Filippo sembra avere la stessa amara e rassegnata consapevolezza di Cordier su un mondo in sfacelo tanto che, dopo la visita dalle ragazzine veggenti che gli preannunciano un futuro da re, confessa ad Emilie "Io sono un vecchio cadavere!", frase che ricorda l'ultima affermazione di Cordier quando, ballando con l'amata Anne le dice "Sono morto da così tanto tempo…"), non pochi sono i punti comuni con il successivo ma leggermente inferiore "Il giudice e l'assassino" con cui costituisce un curioso dittico. Sia per quanto riguarda l'ispirazione storica, sia per l'ambizione e la scaltrezza manipolatrice che accomunano Dubois con il giudice Rousseau, sia per i personaggi femminili di Emilie e Rose disgustate da quel mondo, quasi illuminate dalla grazia, sia per l'analisi efficace di una gestione molto personale e "comoda" della giustizia, sia per il finale che, se ne "Il giudice e l'assassino" suonava posticcio e programmatico, in questo caso ha una sua considerevole forza e ben si inserisce nel contesto della vicenda. "La contadina alzò la testa del bambino morto e gli disse: guarda fratellino, guarda che belle fiamme. Poi aggiunse: Ne bruceranno altre, molte altre!" E' vero: è all'altezza di "Barry Lindon". Le musiche sono riarrangiamenti di testi scritti dal vero Filippo d'Orléans. Aperto da una citazione di Jacques Audiberti: "Ma tutto l'amore che io darò, dove lo prenderò?" Vincitore del Premio Méliès e di quattro importanti César: regia, sceneggiatura, scenografie (di Pierre Guffroy) e attore non protagonista (Rochefort). Altre tre nomination al film, alle musiche e a Christine Pascal.

Voto: 8

 

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