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Il diario di un curato di campagna

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Il diario di un curato di campagna

di alan smithee
10 stelle

"Che importa? Tutto è grazia"

Un giovane prete alla sua prima nomina, cela il suo stato di salute precario ed accetta di divenire parroco del paesino di campagna conosciuto come Ambricourt.

Notando una certa freddezza da parte dei paesani, il ragazzo si prodiga in modo da risultare generoso e pratico con gli abitanti del luogo, e per questo si adopera in ogni affare, trascurando di curarsi e celando una sofferenza fisica che gli comporta lancinanti dolori al petto.

Ma la crudeltà del paese non tarda a manifestarsi con atteggiamenti nei confronti del prete oltremodo irrispettosi; il medico del paese, unico suo amico, si suicida e il prete del paese vicino, uomo di polso e pieno di energie, lo sprona a tenersi in contatto con i pochi ricchi del paese, in modo da poter ingraziarseli ed ottenerne benefici materiali. Proprio quelli che il giovane prete rifugge, trascurando altresì di cibarsi regolarmente ed aggravando il già compromesso suo stato di salute.

Diventerà confidente di una nobildonna dura e pessimista, dai modi bruschi e scortesi, che perse la fede tempo addietro con la morte prematura del figlio, fino a farle tornare una parvenza di predisposizione a tornare a seguire i precetti religiosi.

Scoprirà di non essere affetto da tubercolosi, bensì di vivere gli effetti terminali di un tumore allo stomaco, e, ritiratosi nell'abitazione a Lille di un suo ex compagno di studi spretatosi, si spegnerà tra mille sofferenze assurgendo al livello di una propria privata santità frutto di una passione non troppo dissimile a quella del suo figlio di Dio.

Tratto piuttosto fedelmente dall'omonimo romanzo di George Bernanos, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, ove fu premiato con il premio ecumenico l'OICIC, Il diario di un curato di campagna si concentra sulla descrizione, fisica ma anche attitudinale, di un percorso alla ricerca di un santità che possa dare i suoi frutti già a livello terreno, avvalendosi nel suo racconto di una narrazione tutta improntata sul rigore formale, e focalizzata sul minimalismo dei gesti e del linguaggio: strategie di rappresentazione che il regista riesce a rendere più efficaci attraverso l'utilizzo di attori non professionisti, scelti con puntiglio ad interpretare i vari personaggi coinvolti.

Unica eccezione a questo principio è rappresentata dal protagonista, il belga Claude Laydu, che si prodiga con un atteggiamento quasi sacrificale a rendere palesi ma mai sfrontate, le pene del suo povero protagonista, tutto proteso a non curarsi della propria malattia, ma proteso a cercare di conquistarsi la fiducia di quegli spigolosi e caratteriali dei suoi parrocchiani. 

A sei anni dal suo secondo lungometraggio (quel Perfidia girato tra mille difficoltà pratico-logistiche a fine Seconda Guerra Mondiale) questa volta Robert Bresson si concentra ancor più compiutamente sulla tematica del male che si insinua anche ad ostacolare la vita di chi si è votato alla causa di Dio e si concentra ad operare secondo la parola divina.

La fascinazione del male che travolge e tenta anche chi si avvicina, per predisposizione e sacrificio, alla santità, diverrà un filo conduttore di molte successive opere del grande regista francese, in grado di giostrarsi magistralmente a fare il punto su due facce così opposte ma così in grado di convivere in uno stesso individuo, come si presentano talvolta la santità e la dannazione.

Ma proprio da questo film inizia il periodo dei capolavori per questo grande cineasta profondo e votato al rigore.

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