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Le chiavi di casa

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su Le chiavi di casa

di FilmTv Rivista
8 stelle

Il primo piano di un uomo; in sottofondo, i rumori del bar di una stazione. L’uomo ha la faccia affaticata, concentrata, ma non arrabbiata: sta passando le consegne di un’esperienza difficile a un altro uomo, che vediamo nel controcampo, che sembra preoccupato, teso, quasi intimidito. L’esperienza difficile si chiama Paolo, ha quindici anni, è nato da un parto disgraziato che ha ucciso sua madre e segnato il suo corpo, e in quel momento sta dormendo sul treno che deve portarlo a Berlino, per una terapia di riabilitazione in una clinica specializzata. I due uomini sono, rispettivamente, lo zio che lo ha allevato e il padre che lo ha rifiutato dalla nascita e che ora si assume il peso di un viaggio traumatico. Pierfrancesco Favino (in pochi minuti che lo confermano tra i giovani attori italiani più interessanti) e Kim Rossi Stuart (nel primo ruolo cinematografico da protagonista che rende davvero giustizia alle sue qualità d’interprete), faccia a faccia, in uno scambio di battute carico di malesseri, sottintesi, paure, forse anche di aspettative. La prima scena di Le chiavi di casa di Gianni Amelio dà il tono di tutto il film: un film che si inanella, si racconta, senza svelare i suoi misteri (che sono quelli dei rapporti affettivi, delle anime inquiete, delle improvvise complicità, dei rifiuti, degli sbalzi d’umore, degli scatti d’ira) ma rendendocene partecipi; concentrato sui volti e i gesti dei personaggi, sulla loro quotidiana “fatica”; semplificato al massimo nel linguaggio, pulito ma non rarefatto, segnato semmai dalla pulizia delle emozioni; rispettoso e complice dei suoi protagonisti, dubbioso come loro. Un film fatto di treni e di oggettivi spaesamenti (non solo perché si svolge tutto a Berlino e in Norvegia, ma soprattutto perché il giovane protagonista Paolo è necessariamente spaesato di fronte alle azioni più banali e quotidiane), che, con il suo viaggio di conoscenza tra un padre e un figlio, può di primo acchito ricordare Il ladro di bambini, ma che sotto nasconde anche le amarezze e le violenze di Così ridevano, che forse nasce come gesto di liberazione emotiva rispetto alla nota tragica e oscura di quel film. Per la prima volta nel cinema di Amelio, un ragazzo riuscirà forse a salvare l’anima di un adulto (e questo è il tratto che più lo avvicina a Il ladro di bambini) e a salvarsi da lui senza essere costretto a fuggire (come accadeva al protagonista del primo cortometraggio, La fine del gioco, che di soppiatto scendeva dal treno). Per la prima volta, le forze affettive in campo si equilibrano, e non nel segno della compassione o della rinuncia, ma in quello del bisogno e del rispetto reciproci. Per la prima volta insieme, padre e figlio attraversano la città sconosciuta con curiosità e la clinica minacciosa con dolore: il padre è straziato dallo strazio cui la riabilitazione sottopone il corpo del figlio (in una delle scene più “forti” del film, dove Amelio riesce a tenersi miracolosamente lontano dal ricatto della rappresentazione del dolore), è affascinato dall’inesauribile energia di Paolo, ma è anche innervosito, esasperato, disperatamente consapevole della distanza che li separa e sempre li separerà. Il figlio è una forza della natura, un affabulatore tenerissimo (la scena della dettatura della lettera alla “amica di penna” norvegese, e certe inaspettate ironie nei dialoghi), un ragazzo che gioca, che coccola, ma che all’improvviso può incupirsi e partire per tornare a casa, quella casa della quale, orgoglioso, esibisce le chiavi e della quale sa raccontare, ora gioioso ora terribilmente atono, i riti quotidiani (pulire, fare la spesa, la lavatrice…). Gianni Amelio ci racconta i primi balbettii di questa conoscenza e la progressiva crescita di questo affetto con la naturalezza di un amore “normale”: anche se circondati da istantanee di altre vite segnate dal dolore impotente della differenza (come quelle di Charlotte Rampling e di sua figlia, e di altri ragazzi che intravediamo nella clinica), dimentichiamo in fretta le anomalie fisiche di Paolo, come pare dimenticarle il padre, per vivere invece insieme a loro le inevitabili alternanze di un amore che nasce, le ombre di un passato rimosso, le inadeguatezze di un rapporto a due. Le anime in pena forse per una volta riusciranno a convivere, accettando le rispettive responsabilità. Per una volta il melodramma cede il passo alla commedia, tragica ma anche lieve, dei sentimenti.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 38 del 2004

Autore: Emanuela Martini

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