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Pornocrazia

Regia di Catherine Breillat vedi scheda film

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La recensione su Pornocrazia

di EightAndHalf
4 stelle

Osserva e dimmi a cosa pensi: Anatomie de l'enfer parte benissimo, perché si dimostra perfettamente coerente con le sue intenzioni, portatore di una notevolissima impresa, ovvero quella di scervellarsi sull'immagine e scoprire come essa influisce sulla nostra mente e sul nostro inconscio, a partire da uno shock volutamente assestato (prima quello contro lo spettatore e non commentato, ovvero una breve fellatio omosessuale, e poi quello 'discusso' con il gay Rocco Siffredi che osserva per la prima notte le nudità di Amira Casar, attrice dal coraggio davvero estremo). Il dialogo con lo spettatore diventa fin da subito teso e ostinato, imperniato sulla portata eversiva e respingente/affascinante che può avere l'immagine, come un incrocio di sguardi durante un ballo in discoteca e il conseguente contatto fisico, che è nato però pur sempre da un immagine. Perché l'istinto e l'attrazione, come il semplice desiderio, sono particolari e necessarie forme di conoscenza; perché l'intenzione ultima della Casar (come della Breillat) è quello di "sapere", nel tentativo di riappropriarsi della propria oggettiva carnalità tramite un osservatore imparziale e disinteressato (non è un caso che non osserviamo, all'inizio, la seconda fellatio, fatta per strada [!] a Siffredi dalla Casar). Così parte una riflessione filmica che, nonostante sia tratta da un libro (sempre della Breillat), si rivela immediatamente assai cinematografica, poiché interessata a ciò che vediamo, ai nostri sguardi. Da quando ci troviamo dentro la camera da letto, che costituisce l'unità di luogo della storia, è come se osservassimo il tutto attraverso gli sguardi dei due protagonisti, e ci facessimo invischiare (finendo per prenderli sul serio) nella loro storia, nei loro scambi umani che finiscono per parlare di oscenità e di Nulla corporale. Nella pornocrazia, ovvero nel potere dell'immagine (porno o meno, poco importa), la Breillat trova il punto di contatto fra ciò che è più concreto e carnale (il corpo) e ciò che astratto (l'idea di corpo), per cui la ricerca sarà nella direzione di una Cosa in Sé estranea a noi e che vogliamo incorporare, comprendere. Come quando 'discutiamo' di qualcosa, senza necessità di idealizzazione, e la trasformiamo in un concetto, secondo un processo che con uno sguardo quasi da scienziata la Breillat ci procura (almeno per la prima mezz'ora di film), sezionando l'immagine e i corpi, rivelandone gli anfratti, inserendo una voce fuori campo quasi da contralto per commentare i pensieri di lui, omosessuale, che viene pagato da lei, corpo sessualmente attivo ma senza definizioni (puro e candido nonostante il sangue e la peluria), per raccontare cosa vede, come uno scienziato, appunto, di fronte a un oggetto di studi. L'occhio del protagonista è l'occhio della Breillat, che poi potrebbe anche essersi lanciata in uno sguardo su se stessa, prima di tutto sul proprio corpo. E se dunque la sensibilità è conoscenza, sarà attraverso il tatto e i sensi che potremo esplorare gli anfratti, ciò che è celato, ciò che sta nascosto e che gli altri normalmente non vedono: una ricerca della verità psicofisiologica che passa attraverso esplorazioni corporali, assaggi e penetrazioni, fino non a una conclusione ma all'impossibilità della definizione, come se avessimo tracciato, alla fine, una anatomia del nostro fallimento. Saremo tanto presi dalla corporeità che anche essa fuggirà, si allontanerà, nella sua fugacità estrema che renderà infima la nostra sete (brama erotica) di conoscenza. 
Fino alla prima mezz'ora ci troviamo perfettamente inseriti in questa scatola assai cerebrale in cui il rigore dell'immagine è volontà di sperimentazione, e lo sguardo attonito della regia è lo sguardo attonito dello spettatore, tanto da riuscire a comprendere veramente l'intenzione e l'andamento del film; da mezz'ora in poi, purtroppo, Pornocrazia si sfilaccia e diventa pura teoria, perché dal primo contatto non siamo in grado di usufruire della stessa conoscenza che inseguono i protagonisti, una conoscenza attiva/passiva che è sottomissione/impadronimento dell'Altro. Se anche volessimo osservare freddamente la sessualità, addirittura privandola della passionalità che qui c'è solo a piccole dosi, non saremmo in grado di andare oltre l'immagine, di incarnarci nelle mani di un Rocco Siffredi che cerca, bevendo del sangue e toccando i punti più reconditi di un corpo femminile, di scoprirne l'essenza più profonda. Noi rimaniamo alla prima mezz'ora, all'immagine, al potere dell'immagine. Rimaniamo fuori, come ad osservare una pagina su cui uno scrittore ha scritto fittissime parole e profondissime espressioni su cosa voglia dire la sessualità e sul bisogno del proprio corpo e di una ricerca, ma che si stia attorcigliando su se stesso. L'enfer è infine il fallimento, quello del protagonista, che scopre di voler conoscere ma si accorge di non essere riuscito a catturare l'oggetto del suo desiderio conoscitivo/carnale nonostante l'abbia esplorato in lungo e in largo, diventando così, forse, l'uomo comune, che critica tanto l'oscenità femminile ma che la ricerca e se ne inebria. Andando ben oltre "l'eterosessualizzazione" del gay Rocco Siffredi, che lascia molto poco spazio a una possibile (statistica) universalizzazione del concetto di corpo, non si può fare altro che osservare rimanendo alla pornocrazia e non cogliendo la sessuocrazia, se il termine si può utilizzare. La Breillat sembra così considerare (e magari non è vero) il cinema come la letteratura, addirittura come la saggistica anti-narrativa, non perché riempie il suo film di dialoghi, ma perché si ferma alla teoria e la esplica in tutte le sue parti senza proporre un coinvolgimento intellettuale che possibilmente auspicava (è possibile un coinvolgimento intellettuale in un argomento talmente carnale e "basso" che ci interessa tutti, ovvero senza destare i nostri intimi furori, visto che è tutto così spiegato e, addirittura, dettagliato?). E quando Siffredi inserisce un attrezzo da giardinaggio in un pertugio della Casar, o quando entrambi bevono "il sangue del nemico", oltre a ribadire concetti al limite del protofemminismo più risaputo, si riesce a prendere sul serio ben poco, e ci ritroviamo anche più fallimentari di Siffredi, anche se, vista la distanza, non abbiamo ben capito in cosa abbiamo fallito.

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