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La conversa di Belfort

Regia di Robert Bresson vedi scheda film

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La recensione su La conversa di Belfort

di luisasalvi
6 stelle

Le “Suore domenicane di Betania”, inizialmente “Suore di santa Maria Maddalena di Betania” sono una congregazione nata in Francia (dove il culto per Maria Maddalena è sempre stato molto forte e diffuso) per riunire donne uscite di prigione che intendono vivere insieme religiosamente, assieme ad altre che non hanno avuto condanne penali; il principio base è che il passato non conta.

Immagino che la presentazione del tipo di vita nel convento, con obblighi di obbedienza piuttosto forti, con le suore che si stendono a terra di fronte alla madre superiora e altre piacevolezze del genere, siano autentici. E proprio non mi piacciono. Ma molto meno mi piace la vicenda e il dialogo e il dramma, che tuttavia porta ad un finale che ha punti drammatici ed espressivi di notevole efficacia e di buona resa cinematografica.

Anna Maria, ragazza di buona famiglia che decide di dedicare la vita a Dio seguendone le direttive, cioè la voce, mi casca proprio a fagiolo dato che da tempo sono alle prese con il tema del rapporto fra Legge (biblica) e coscienza (amore: Parola di Dio) nel vangelo secondo Giovanni, secondo cui “ama e fa ciò che vuoi” (nella sintesi che ne fa Agostino) e nell’enciclica Caritas in veritate che afferma il contrario. Anna Maria è convinta di ascoltare la voce di Dio nel dedicarsi a redimere Teresa, la più ostinata e ribelle delle carcerate. Questa è ribelle perché ingiustamente condannata per un furto commesso dal suo uomo che poi l’ha denunciata; vive nell’odio e nel desiderio di vendetta. Perciò Anna Maria la cerca, la vuole salvare, è disposta a dare la vita per lei, e finalmente la dà e muore felice per aver compiuto la missione cui era stata chiamata. Teresa uscita di prigione per prima cosa compra una pistola e uccide l’uomo che l’ha tradita, poi si rifugia in convento. Anna Maria “sente” che lei suona alla porta, la cerca, la cerca sempre, anche trasgredendo gli ordini in nome dell’amore, della parola di Dio che lei dice di ascoltare. Verrà espulsa dal convento per le sue disubbidienze, perché non si piega; ma tornerà ogni notte, di nascosto, a pregare… Finché, stremata, sviene e al mattino viene trovata in fin di vita dalle suore. Rinviene e chiede subito di Teresa. Le parla… quando lei muore Teresa, “convertita”, va a consegnarsi alla polizia.

Nel vangelo di Giovanni Gesù è pronto a morire per dare la vita (cioè convertire) il suo amico, colui che lui ama, l’autore del vangelo, il quale dopo la sua morte finalmente “credette”. Gesù lo aveva scelto. La preghiera di Anna Maria nel giardino e cimitero delle suore corrisponde a quella di Gesù al monte degli ulivi, dove viene arrestato (anche lei viene portata via e morirà).

Il guaio è che a me Anna Maria sembra un’esaltata fanatica… anche se il film conclude con il “lieto fine” della conversione della sua amica, di colei che lei amava al punto da dare la sua vita per lei. Tanto mi commuove il racconto di Giovanni, tanto mi irrita questo di Giraudoux e Bresson.

Alcune belle immagini di movimenti delle suore, qualche efficace momento (melo)drammatico. Ma il film mi lascia freddo. Vuole suggerire tanto, tantissimo, profondità spirituali di tipo evangelico (ma c’è già l’ombra del giansenismo e di Port-Royal, che proprio non mi va… pur amando molto Pascal), ma inquinate da componenti miracolistiche o visionarie o tormentose che in ogni tempo si inseriscono in frange di ogni religione oscurandone il messaggio luminoso; ne escono commenti da new age. Purtroppo queste tentazioni provocano reazioni opposte, di eccessi di legalismo che si spaccia per razionale e rifiuta in blocco anche la prevalenza della coscienza e cioè dell’amore predicata dal vangelo. Non dovrebbe essere un argomento di valutazione estetica di un film, ma in questo caso mi sembra inevitabile parlare anche dei suoi contenuti tematici, che vogliono esserne il senso e la ragion d’essere.

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