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La grande razzia

Regia di Henri Decoin vedi scheda film

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La recensione su La grande razzia

di hupp2000
8 stelle

Proibizionista e moralista, ma ottimo polar anni '50 con un magnifico Jean Gabin. Finale da antologia.

Film dalla morale proibizionista e repressiva in materia di traffico di droghe illegali, come spesso accadeva nei puritani anni ’50, ma grande “polar” d’epoca, con un immenso Jean Gabin e una folla di attori che hanno segnato un’epoca, primo fra tutti l’ancor giovane ma già prorompente Lino Ventura. Tratta da un romanzo del prolifico Auguste Le Breton, la trama cattura fin dalle prime sequenze. Henri Ferré, detto “Le Nantais” (Jean Gabin) arriva a Parigi dopo otto anni trascorsi negli Stati Uniti. La polizia lo tiene d’occhio fin dal suo atterraggio all’aeroporto di Orly. E’ chiamato a riprendere in mano la gestione del traffico di stupefacenti nella capitale. Ci sono teste da tagliare, intermediari da sostituire, tariffe da ritoccare e quant’altro. Il nostro agisce in tutta impunità, come un normale imprenditore aziendale che fa il giro delle sue filiali. Nei suoi spostamenti è accompagnato e protetto da due gaglioffi di fiducia dal grilletto facile, “le Catalan” (Lino Ventura) e “Bibi” (Paul Frankeur) attore onnipresente nei film di quegli anni. Il capo non si sporca mai le mani, i suoi gorilla spargono sangue a destra e a manca. Finale a sorpresa, devo ammettere inatteso e assai divertente. Evito il cattivo gusto di raccontarlo, pur trattandosi di un film difficile da trovare, se non a prezzi proibitivi.

 

Oltre che per l’elevato livello recitativo e per la sceneggiatura ottimamente articolata, la pellicola è senza dubbio suggestiva per la lunga tournée attraverso la Parigi dei bistrots, locali notturni e ambienti popolari negli anni ’50. In compenso, il punto debole riguarda la descrizione eccessivamente caricaturale dei tossicodipendenti incontrati lungo l’intera vicenda. Il film fa di tutte le erbe un fascio. Che si tratti eroinomani, cocainomani, fumatori d’oppio o di marijuana, si è comunque in presenza di relitti umani, in preda al delirio e alla sofferenza. Si comportano tutti nello stesso identico modo, come se le droghe provocassero tutte il medesimo effetto. La scena dei fumatori di spinelli in un locale sotterraneo dove si ascolta musica jazz rasenta il ridicolo. Il pubblico appare addirittura invasato e in preda a convulsioni. Va detto e ricordato che nell’Europa degli anni ’50 i derivati della cannabis erano conosciuti solo in ambienti artistici ristrettisimi. L’ingenuità di questo aspetto del film diventa poi stridente di fronte agli ettolitri di bevande alcooliche e alle centinaia di sigarette e sigari consumati 24 ore su 24 da tutti gli altri personaggi, siano essi poliziotti, spacciatori o figure di contorno, a cominciare dallo stesso Jean Gabin che, con gli anni, ci lascerà la pelle.

 

E’ comprensibile che i futuri esponenti della Nouvelle Vague detestassero questo genere di luoghi comuni nazional-popolari con morale da quattro soldi, ma finirono, secondo me, con il gettare il bambino con l’acqua sporca. Questo, infatti, come molti altri film dell’epoca, resta un poliziesco con i fiocchi, capace di soddisfare ampiamente lo spettatore in cerca di un racconto originale e intelligente. Poi, lo ripeto: il finale spiazza ed è molto, ma molto divertente.

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