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Il cielo sopra Berlino

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Il cielo sopra Berlino

di Aquilant
8 stelle

“Quando è cominciato il tempo e dove finisce lo spazio? La vita sotto il sole non è forse un sogno?” Sono le domande che Wenders pone in bocca a Marion, l’avvenente protagonista femminile di questa algida panoramica sul mondo e sugli individui derubati della loro interiorità da esseri primordiali che vagano alla ricerca delle loro emozioni, dei loro più remoti pensieri, dei loro desideri repressi. Rendersi pienamente partecipe dei segreti dell'individuo, dei suoi turbamenti, dei suoi dolori, è questo il desiderio recondito di onnipotenza che Wenders sviluppa in una monumentale opera tramite una serie di ingegnose sequenze tese a focalizzare la realtà fenomenica di un’intera fetta di umanità messa a nudo e violentata a sua insaputa da occulte presenze a sembianza di angeli che racchiudono al loro interno i germi latenti di un logorio sistematico operato nel corso dei secoli sulla propria volontà di percezione passiva e sulla capacità di interazione col mondo sottostante. Il senso di impotenza è tanto più accentuato quanto più grande è l’intensità del conflitto esistenziale percepito tramite lo sguardo dall’alto da parte dell’occhio che spazia su una moltitudine di puntini in movimento per captare voci e visioni di gente che sta per “andarsene via come una mammola”, per rubare estremi ricordi dal sapore di “Croce del Sud”, di “Oriente lontano”, di “Grande Nord”, di “Ovest selvaggio”, di “Delta del Mississipi”. L’angelo è incapace di accogliere l’umanità sotto le sue ali protettrici, e lo dimostra agitandole in segno di impotenza nei voli al di sopra della città. Il suo sguardo partecipe coincide con quello della macchina da presa tramite un generoso utilizzo delle inquadrature in “soggettiva”. E l’irreparabile incapacità di compenetrazione oggettiva che nelle prime opere di Wenders (vedi nella fattispecie “Alice nelle città”) si manifestava tramite un rigetto della parola scritta seguito da vani tentativi di documentazione della realtà tramite pellicola sensibile, nel caso presente viene affrontata tramite un’elevazione verso l’alto realizzata in forma trascendente. Quasi una sorta di creazionismo primigenio cui fa difetto una totale assenza del senso del sacro ma che si risolve in una serie di figure di impassibili guardiani del nulla che dopo aver attraversato l’intero evoluzionismo con l’impotenza dello sguardo si volgono con invidia alle capacità tattili degli esseri umani, alla loro attitudine ad interagire con la realtà, alla loro facoltà di amare ed essere amati. In tal modo il delirio di vana onnipotenza, inteso come una sorta di deificazione in grado di restituire all’essere pensante quella visione oggettiva della realtà invano cercata per altre strade, è destinato ad infrangersi comunque, perché il prezzo da pagare è troppo elevato ed il relativo meccanismo cognitivo, seppure realizzato allo stato ipotetico tramite strade non accessibili normalmente, lascia emergere l’incapacità di una prerogativa che attribuisce all’uomo il modellamento del reale a guisa di un novello creatore. Ancora una volta quindi il fallimento è alle porte, pur se la soluzione metafisica permette all’umano di avanzare di qualche passo sulla sua strada salvo poi farlo tornare al punto di partenza nella consapevolezza che lo sguardo dall’esterno comporta l’incapacità di compenetrare la forma delle cose, e fargli testualmente dichiarare che “È MAGNIFICO VIVERE DI SOLO SPIRITO E TESTIMONIARE ALLA GENTE CIÒ CHE È SPIRITUALE MA A VOLTE L’ETERNITÀ PUÒ PESARE. SONO STANCO DI FARE LE COSE PER FINTA MA SAREBBE GIÀ QUALCOSA TORNARE A CASA DOPO UN LUNGO GIORNO ED ENTUSIASMARSI PER QUALCOSA, POTER FUMARE, BERE UN CAFFÈ, SENTIRE IL MOVIMENTO DELLE PROPRIE OSSA”. - Questa metafora in immagini svolta con un uso frequente di piani sequenza è concepita come un atto d’amore da parte del regista nei confronti della sua città cui rende un devoto omaggio tramite stupende inquadrature aeree dall’alto, immortalando le strade, i palazzi, i ponti, i chioschi, gli appartamenti di periferia, la metropolitana con la splendida fotografia di Henn Alekan, un bianconero dai toni seppiati che restituiscono alla perfezione la visione degli angeli impossibilitati a percepire visivamente i colori della realtà e rassegnati ad una straniante visione monocromatica. L’atmosfera decadente è avvalorata dagli sferzanti immalinconimenti musicali al limite del disfattismo di Nick Cave, l’indimenticato interprete di “Where wild roses go”, qui orfano della sua compagna di videoclip Kylie Minogue. Echi di scene di circo cadenzate con una gioia quasi infantile richiamano alla mente nostalgiche reminiscenze felliniane. Frammenti di ricordi perduti vagano nell’aria, rievocati dal cantore della memoria storica della città, di quella Postdammerplatz una volta piena di vita ma ormai smarrita insieme al suo caffè Josti ed ai suoi magazzini Werthein. “Il cielo sopra Berlino” è una struggente reverie colma di visionarietà fantastica condotta con la commozione di chi dopo tanto tempo torna a ripercorrere le strade dell’infanzia per ritrovare le sue radici ormai smarrite nella disgregazione del popolo tedesco in tanti piccoli stati, nella sua totale capitolazione di fronte al colonialismo culturale americano. Storia che va quindi anche percepita come una moderna epopea di un popolo con i suoi ricordi, le sue passioni, le sue tensioni inesplose, i suoi itinerari esistenziali, svolta in quel monocromatismo inteso come rappresentazione di una realtà decolorata ed apparentemente immersa in una piega temporale al di fuori del normale CORSO DEL TEMPO.

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