Regia di Neil LaBute vedi scheda film
Una piccola impresa, quella che è riuscita a Neil LaBute, perché svolgere in forma cinematografica il coinvolgente, capriccioso - letterariamente parlando (cioè scritto in svariati e complicati registri e linguaggi) - volume di Antonia Byatt, non era cerco compito semplice. Per riuscire nel suo intento, il regista ha avuto il buon gusto di operare una brillante scelta di tono, non limitandosi a giustapporre la vicenda del passato e quella del presente, ma intrecciandole anche e soprattutto alla luce di una serie infinita di gesti, di sguardi, di ammiccamenti, tutte armi insomma delle quali chi scrive non dispone con tanta facilità chi racconta per immagini. Buon per LaBute, quindi, che gli attori siano tanto bravi da rendere palpabile la passione nel suo consumarsi (Northam e Ehle) come nel suo autocensurarsi (Paltrow e Eckhart), in una onesta e accattivante girandola di rimandi accademici e di suggestioni del cuore. Un delicato film di porcellana, finemente cesellato, capace di eludere la tentazione del calligrafismo e del melodramma. E forse anche meno ovvio di quanto si creda: nel contrapporre la drastica consumazione dell'amore romantico all'imborghesimento del sentimento moderno (non siamo poi così liberi quanto gli anni Sessanta ci hanno fatto credere...), sembra poi suggerire che in amore non vince né chi azzarda né ci fugge, perché "la società degli uomini" non si fida del cuore.
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