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Il segno

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il segno

di mm40
6 stelle

Se si esclude Fanny e Alexander (1982), che uscì in doppia versione - televisiva e cinematografica - questo Segno risulta essere il secondo lavoro espressamente creato per la tv da Bergman. Anche se, va specificato, Dopo la prova (1984), il suo primo lavoro televisivo, venne sfruttato dalla produzione creandone una versione dilatata da immettere nel circuito cinematografico. Per Il segno invece il regista si impose sull'esclusività della destinazione del suo lavoro. E si capisce perchè: come in Dopo la prova, infatti, il Maestro gioca con la macchina da presa in ambienti ristretti e con un numero molto limitato di personaggi (quasi un kammerspiel, tanto amato da Bergman, non fosse per qualche esterno di tanto in tanto), con luci alte e innaturali (televisive, appunto) e ripetuti primi piani, preoccupandosi molto di più dei contenuti dei dialoghi che della resa effettiva delle immagini. Se occorresse valutare solamente l'impatto visivo, questo sarebbe senz'altro un brutto film; ma il vero riscatto dell'opera sta nei contenuti; andando infatti a rovistare fra le tante idee sparse lungo gli 80 minuti di pellicola ci si accorge che Bergman ha ancora tantissimo da dire e che ha scelto di rappresentare questo testo di Ulla Isaksson proprio perchè in perfetta sintonia con il suo cinema. Si comincia sulla questione di dio, eterno cruccio del Maestro svedese, ed immediatamente dopo viene introdotto il concetto di amore: i personaggi sono da subito fortemente scettici ed entro la fine della storia dimostreranno di avere ragione, poichè la loro idea di amore è piuttosto simile a quella di una malattia contagiosa. Se non c'è dio non c'è amore e se non c'è amore non vale la pena vivere: stop. Come morale è altrettanto semplice ed angosciante, ma certo Bergman non ha mai risparmiato al suo pubblico morali ansiogene, misantropiche, nichiliste. Ciò che invece pare più interessante in questo lavoro è la figura dell'occhio, chiamata spesse volte in causa con un utilizzo della simbologia (e di una sottile psicanalisi dei personaggi) propriamente bergmaniano; l'occhio malato della protagonista si accosta all'occhio figurato di dio nel cielo, una presenza incombente, inquietante, che scruta e giudica. Da qui al concetto di peccato e di senso di colpa è un passo solo; il senso di colpa schiacciante viene vinto solo attraverso gli occhiali, schermo/riparo (per gli occhi) dalla vista del mondo, esattamente come la religione si presenta come fasullo riparo dalle fobie dell'esistenza (in primis la morte); ancora l'occhio sarà lo strumento che Sune userà - ferendosene uno - per ricongiungersi definitivamente con Viveka. E cos'è in fondo la macchina da presa, se non l'occhio del regista (e cos'è in fondo il regista, se non l'occhio attraverso cui lo spettatore vede la storia)? Densissima rappresentazione nella sostanza, ma scialba nella forma, con una Andersson (Harriet) sempre brava affiancata da Per Myrberg, volto nuovo (ed efficace) per il cinema di Bergman. 6/10.

Sulla trama

Viveka e Sune sono una coppia di mezza età apparentemente normale. Lei ha un buchetto in un occhio e ogni tanto straparla a proposito dell'occhio divino che tutto vede e giudica; lui per troppo amore la asseconda e così la donna arriva pian piano al delirio vero e proprio. Quando la polizia fa ricoverare Viveka è ormai troppo tardi anche per Sune...

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