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L'arpa birmana

Regia di Kon Ichikawa vedi scheda film

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La recensione su L'arpa birmana

di Azrael
8 stelle

Un profondo messaggio di compassione trapela da questo classico del cinema antimilitarista giapponese, classificazione quest'ultima forse fin troppo semplicistica se si pensa come il senso del film vada ricercato in una dimensione più ampia, per un messaggio di compassione di portata universale, in alcuni tratti dal gusto quasi mistico-religioso. Probabilmente il più conosciuto in occidente del maestro Ichikawa, il film narra delle peripezie di un soldato giapponese agli sgoccioli del secondo conflitto mondiale. Una legione dispersa nella giungla birmana, lontano dalla patria. Un sentore di lontananza, quindi di pianto, che permea l'atmosfera del film, mantenendosi dalla prima scena su questi toni soffusi, tragici. 

 

La scena si apre con un primo piano su di un terreno spoglio, devastato e rosso come suggerisce la frase in apertura del film. Rosso come il sangue versato, i segni inequivocabili di un conflitto che ormai volge al termine. Una tragedia che però non si consuma in maniera plateale: non interessa mostrare il conflitto in quanto tale, che comunque avrà spazio in una singola sequenza, ma l'attenzione è rivolta su quello che è già stato, su quello che rimane, lasciando spazio al pianto sui caduti. Ciò su cui è lecito versare una lacrima, seppur non di disperazione, quanto piuttosto di commiserazione. 

 

Un cordoglio accompagnato da un requiem particolare, il suono delicato dell'arpa. Uno strumento dolce, pastorale, che funge da mezzo per una ricerca dell'armonia con il cosmo, che rischia di andare perduta nei meandri della follia, dell'irrazionale, dell'orrore senza un senso o una motivazione. Eppure una forza che sul fondo rimane, un collante che riesce a risvegliare un sentimento di solidarietà e vicinanza tra gli uomini. La sequenza iniziale del film mostra una scena idilliaca di verdi colline al chiaro di luna, mentre un canto si alza tra i cespugli, quello di un manipolo di soldati dispersi e braccati dal nemico. Un modo inusuale per aprire un film di guerra. Tutta l'attenzione è rivolta su questo canto collettivo, che funge come una sorta di attaccamento alla vita, un'affermazione della concordia con il mondo circostante, nonostante la condizione di precarietà fisica ed emotiva dei soldati. 

 

L'uso del suono attraverso la musica, il ruolo centrale dell'udito, utilizzato dal regista a più riprese nel corso del film. L'udito legato quindi al canto, che più volte interrompe la scena e continua a più riprese in sottofondo, insinuandosi tra una scena e l'altra, ora interrompendo un dialogo, ora uno scambio di sguardi. Si ritrova nella musica il senso di un linguaggio universale proprio dell'uomo, in grado di andare oltre la paura e la disperazione, legando insieme le anime. Uno strumento che porta gli uomini ad un ricongiungimento altrimenti impossibile, ad un'espressione pura del sentimento. Oltre il tradizionale linguaggio verbale, impossibilitato a comunicare i sentimenti più autentici attraverso lo strumento limitato delle parole: se la guerra (come concluderà il soldato) risponde a degli impulsi inconoscibili, allora c'è bisogno di un messaggio che riesca ad andare più a fondo, per spronare alla solidarietà oltre le apparenze, per quanto funeste e senza speranza queste possano apparire. L'arpa, il canto, la musica sono quindi un mezzo, in grado di tradurre in essere un'armonia primordiale. 

 

La sequenza del massacro tra soldati giapponesi, la stessa truppa giapponese che Mizushima (questo il nome del soldato) aveva ripromesso di convincere a cessare le armi. L'unico momento di azione, di guerra aperta nel film. L'atmosfera soffusa si disintegra: ne prende il posto un raggelante mutismo, la nuda roccia, la polvere e i tuoni delle armi da fuoco. Prima dell'infausto avvenimento, il capitano inglese aveva espresso sincera solidarietà al soldato giapponese. La guerra non è quindi additata a responsabili, ne è qualcosa che si comprende, ma un nemico astratto e per questo inafferrabile. La seguente scena del massacro è tanto cruda quanto veloce. Anche in questo caso l'attenzione è rivolta al dopo, quello che rimane: la grotta e l'ammasso di cadaveri, il soldato che cerca una via d'uscita tra di essi, la luce del sole, divino testimone, che penetra da una fessura illuminando la distesa di corpi. Un'immagine che rimanda in astratto a motivi dell'iconografia occidentale. 

 

Nella seconda parte si tocca il misticismo. Il buddhismo assume un ruolo centrale qui, abbracciando quel senso di solidarietà per la ricerca della pace nell'animo umano, che è per sua natura sofferenza. Quando il soldato si ritrova solo, creduto morto, viene dapprima accudito da un monaco. Mizushima inizia ora un personale viaggio, in solitudine, un processo di acquisizione di una più profonda consapevolezza interiore. Un percorso di ritiro, eremitaggio, dopo aver assistito con occhi lucidi all'esibizione della follia insita in ogni uomo. Un solco invalicabile è ormai stato tracciato con i suoi compagni. Ora votato al seppellimento dei caduti, il pianto come unico compagno. Si tratta della parte più sensibilmente disperata del film, dove viene lasciato libero spazio all'orrore. I corvi che banchettano, masse di cadaveri nella foresta e sulle spiagge. Mizushima, unico ad aver assaggiato fino in fondo questa follia, è anche l'unico a poter approdare ad uno stadio successivo di consapevolezza. Una consapevolezza rassegnata, ma fortemente attiva nel suo fare del bene. 

 

La sequenza più emozionante del film trova spazio nel finale. Un recinto scarno, la nebbia che permea il paesaggio abbellito da qualche tempio, come per isolare i soggetti presenti dal resto del cosmo. Mizushima, ormai monaco, si trova dall'altra parte del recinto rispetto al resto dei soldati, ormai liberi di abbandonare il fronte per tornare in patria. Parla solo l'arpa e la sua musica purificatrice. Non a caso è presente un bambino, forse simbolo di purezza e inconsapevole. Esaurita la musica e consumate le lacrime Mizushima si allontana, perdendosi nella nebbia. La scena finale chiude poi il cerchio, lo stesso pezzo di terra iniziale, ugualmente scarno e disadorno, ma un'ombra ora si aggira sopra di esso, vigile. Il trionfo della solidarietà umana, incarnata dal soldato disperso nella sua dedizione nel seppellimento dei cadaveri, ora nella sua vigilanza sopra un terreno irrimediabilmente tinto di sangue, come un guardiano sopra i caduti. Un messaggio di stoicismo consapevole contro la non-afferrabilità della guerra. Oltre l'indifferenza e la dimenticanza, trovare il coraggio di affrontare l'orrore e, seppur non comprendendolo, tentare di ricostruire. 

 

Ricorstruire anche un paese, il Giappone, tramortito dalla catastrofe nucleare. Un messaggio anche politico, quindi, per un patriottismo ritrovato e rigenerato, che possa mettersi alle spalle gli orrori compiuti dal cessato impero (a compiere il massacro nel film è un soldato giapponese). Anche un sottotesto di matrice socio-politica sta alla base del film, ritrovandosi in particolare nella sequenza sul finale della lettera, ma sopratutto un messaggio universale in favore della dignità umana. 

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