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Bob Marley: One Love

Regia di Reinaldo Marcus Green vedi scheda film

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La recensione su Bob Marley: One Love

di lamettrie
8 stelle

Un bel film biografico su un soggetto difficile come Bob Marley.

Difficile perché in questo caso non bisogna tradire la musica. Nemmeno bisogna tradire il personaggio, e il suo messaggio morale/religioso di felicità, e politico di fratellanza universale. E nemmeno si può tradire la sua spontaneità, la sua meravigliosa semplicità. 

Ottima la ricostruzione storica di scenografie, anche quelle giamaicane, nonostante siano passati 50 anni (e quindi siano costose da riprodurre), e i costumi, tipici degli anni ’70.

Più in generale, fedele e utile è la resa dell’ambiente storico, così importante per un film del genere: per l’utilizzo delle droghe leggere; le stereotipie dello slang (“yah man”...); il gioco del calcio e la vita semplice, in comunque all’aria aperta in mezzo alla natura; la vita, piena di affetti gioiosi (almeno in parte) in una comune, con le famiglie allargate …  

Ottima, nell’insieme, è la ricostruzione del clima politico della Giamaica dell’epoca, simile peraltro a tanti contesti neri, e non solo, di quegli anni, come di questi anni: le lotte armate fra fazioni di delinquenti che hanno il potere economico del paese, e che controllano la politica.

Qui si inserisce in modo splendido il reale ruolo che Marley volle assumere, a suo rischio di pericolo. Infatti contribuì realmente alla pacificazione di questa faida. E l’attentato cui fu oggetto, in conseguenza di questo impegno, è ben al centro, nella psiche del personaggio rappresentato.

Come lo sono tanti altri passaggi di questo soggetto, così profondo psicologicamente: l’assenza del padre che non si curò di lui; la fuga in solitudine da un incendio; la proiezione del padre in Hailè Sellassiè, la reincarnazione di Cristo secondo il rastafarianismo, la religione etiope che fu importata in Giamaica da Marcus Garvey, e che prometteva la prossima liberazione dei neri da parte di Cristo; il rapporto con la moglie, che lo riporta alla prima adolescenza, quando non avevano nulla e non erano nessuno, e in cui si innamorarono, e superarono le tremende difficoltà della povertà e del pregiudizio razziale. Una moglie di cui non si nascondono le difficoltà del rapporto, col passare degli anni e delle condizioni.   

Commuoventi sono i flashback anche sull’inizio della loro attività musicale. Come in generale le digressioni, correttissime, sulla vita quotidiana del musicista: in cerca sempre di ispirazioni, immerso nelle prove, a contatto stretto e quotidiano con i suoi amici/musicisti, perso sempre dentro al suo “lavoro”, che lo rende così diverso dal resto del mondo, eppure così unito al mondo. Infatti in un’intervista Marley poté dire così del reggae: “Ti mette in contatto con la parte più intima della tua natura di essere umano”.

Per questo la musica qui riprodotta ha una potenza da far venire i brividi, nella sua apparente semplicità: è universale, tanto da poter essere fatta ascoltare, in gran parte, anche ai bambini, per la serenità che evoca e per il messaggio di fratellanza universale.

Splendida è poi la riproduzione del messaggio religioso: per lui, “Jah”, Dio, è l’unico motivo di vita, l’unica guida della vita.

Il film di Green è ben scritto, anche perché non è per nulla agiografico, né semplificatorio. I limiti del personaggio si vedono: un po’ troppo velleitario nella speranza, tipicamente sessantottina, di cambiare il mondo con le buone intenzioni. Eppure sincero: non inseguiva né il denaro, né la gloria; ma il miglioramento del mondo. Aiutava la sua comunità, concretamente. Commuovente l’acclamazione della folla quando torna in patria: ma per meriti sociali, non tanto di notorietà. Quasi nessuno, nello star-system, può dire altrettanto.

Significativa la presenza, per la colonna sonora, di Chris Lowe, il gigante padre della musica dei Pet Shop Boys: qui su sonorità lontanissime dalle sue, peraltro.

Unico neo: Kingsley Ben-Adir recita Marley un po’ troppo da fighetto. Più bello di com’era, ma soprattutto più impostato di com’era, probabilmente: cioè sanguigno, diretto.

Ma, nel mettere assieme tutti questi aspetti, così complessi, di un leggendario (per quanto morto a soli 36 anni), e potente comunicatore della fratellanza universale e della vera conoscenza di sé, in modi accessibili a tutti, nella sua semplicità, ecco: questo film, prodotto anche da Brad Pitt – per tornare a quanto scrivevamo all’inizio - non tradisce né banalizza nulla.     

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