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The Beast

Regia di Bertrand Bonello vedi scheda film

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La recensione su The Beast

di EightAndHalf
7 stelle

Bertrand Bonello è un esteta, e i suoi film sono sempre delle passerelle, dei fashion film, su cui ogni posa e ogni movimento assume un’intensità insostenibile. La bête, il nuovo film presentato in concorso a Venezia 80, è un altro film di passerelle, e su una passerella si apre nel suo rapido fulminante prologo: la giovane Gabrielle è a un provino, cammina in un verde vuoto digitale, un regista la rassicura che intorno a lei, nella scena post-editata, appariranno degli oggetti, delle persone, una cucina. E poi fuoricampo (ma cos’è il campo?) una bestia. Appena vedrà la bestia dovrà urlare. E allora Gabrielle si ferma e urla, ma la camera non si ferma e la passarella di Gabrielle prosegue nella forma di un brodo primordiale di pixel che la frantumano in mille particelle. Finché non appare il titolo del film.

Se ne La bête è possibile ritrovare il consueto tono attonito e scultoreo di Bertrand Bonello, è invece nella porosità tra le sue parti che va rintracciata la sua originalità, e forse anche la sua principale chiave di lettura. Sono infatti tre film in uno: Gabrielle nel 2044, Gabrielle oggi e Gabrielle in un ieri Belle Epoque in cui l’elettricità esiste a malapena. Il legame “narrativo” fra le tre parti è presto detto: nel futuro Gabrielle si sottopone a una inquietante cura Ludovico che le permetterà di privarsi di ogni emozione, in modo da riuscire meglio nel lavoro e quindi risultare più efficiente. Per far questo dovrà rivivere le sue vite precedenti, e viverne soprattutto le emozioni più estreme.

Lo schema è evidente, e di suo non richiederebbe il minutaggio che il film ha, ben 2 ore e venti minuti. Ma l’evidenza dello schema – che in realtà appare chiaro e lampante soltanto a metà film – non preclude alla Bête di essere un puro concentrato di situazioni stranianti e sconvolgenti. Flirtando con l’ambient horror e le derive più punk dell’enigma digitale dell’audiovisivo contemporaneo – tutta una coreografia di glitch, skews, immagini compromesse, pixel e riprese in prima persona - La bête basa tutto il cuore della sua inquietudine sull’inevitabilità del ricorrere delle cose, degli eventi, delle tragedie, in tutte e tre le epoche che Gabrielle attraversa. Come un’esploratrice (di luoghi museificati, del web, di spazi dal design minimale) Gabrielle subisce ancora e ancora le ansie cardine del suo privato sentimentale, affrontando con dinamiche diverse ma sempre uguali la sua attrazione per Louis, ora seducente e affabile intellettuale, ora redpill frustrato e aggressivo, ora vittima di un sistema opprimente. Tutte diverse declinazioni di un disorientamento.

Ed è questa la chiave di lettura delle passerelle della bestia bonelliana: non vanno mai da nessuna parte. Non risolvono, non chiudono, non assumono un senso diverso se le si guarda da qualsiasi prospettiva. Non importa quanto possano moltiplicarsi i punti di vista meccanici – le usuali camere di sorveglianza, ancora usate da Bonello nelle sue composizioni mondraniane – e non importa quanto possano proiettarsi all’infinito i riferimenti paratestuali – c’è una citazione a Harmony Korine gustosissima per qualsiasi cinefilo. La vita, l’immagine e la sua abietta riproduzione ci ridurranno sempre a un mucchio di pixel senza emozioni. Già Coma preannunciava una chiave nichilista di lettura sul mondo digitale da parte di Bonello, ma La bête permette a questa prospettiva di frammentarsi ulteriormente, cercando disperatamente un cuore che batte dietro la riproduzione tecnica di un’immagine e piangendo e urlando il proprio fallimento.

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