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Palazzina Laf

Regia di Michele Riondino vedi scheda film

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La recensione su Palazzina Laf

di pazuzu
7 stelle

Una realtà che se venisse solo raccontato potrebbe risultare assurda e al limite della caricatura, Riondino la racconta con mano sicura, realizzando un solido esemplare di cinema civile con punte di grottesco.

 

 

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Taranto, 1997. Caterino è operaio all'Ilva nel settore Manutenzione Forni, ed è poco interessato agli inviti a partecipare agli scioperi che gli arrivano dal sindacalista Morra e da alcuni altri colleghi, che protestano per la mancanza di sicurezza che sta portando sempre più operai a morire sul posto di lavoro. A lui interessa lavorare e poi tornare dalla sua fidanzata Anna, con la quale abita in una masseria malmessa con il sogno di trasferirsi in città. Un giorno viene abbordato dal Caposezione, il dottor Moretti, che gli propone una promozione a caposquadra, con relativo adeguamento dello stipendio e annessa auto aziendale, e in cambio gli chiede di informarlo di tutto ciò che accade in fabbrica, specie attorno alle varie forme di protesta. Dopo aver iniziato a pedinare i colleghi e a prender parte agli scioperi solo per riferire al capo chi fa cosa, Caterino scopre casualmente che alcuni di essi, peraltro qualificati, sono stati trasferiti in un edificio denominato Palazzina Laf, dove passano le giornate a non fare nulla. Invidioso della situazione, chiede di esser trasferito anche lui lì, promettendo di proseguire a fare la spia, senza capire che non si tratta di un reparto ambito, bensì di un confino.

 

 

Quelli messi in scena da Michele Riondino in Palazzina Laf sono tutti fatti reali, che provengono da un libro scritto a soli due anni di distanza, nel 1999, da Claudio Virtù, uno dei confinati, e da numerose interviste fatte ad altri ex confinati ed ex lavoratori ILVA. Il paradosso della Palazzina Laf, in un tempo nel quale il termine 'mobbing' non era ancora noto, è proprio quello portato in evidenza dall'ingenuità del protagonista, che rispecchia non solo quella di molti suoi colleghi, ma potenzialmente anche quella di osservatori esterni poco attenti, ovvero l'illusione che lì fossero spostati i raccomandati, in virtù della loro alta preparazione (dentro c'erano ingegneri e informatici), perché lavativi e senza voglia di sporcarsi le mani. Lo scopo dei reparti lager era invece palesemente opposto: lì venivano spediti i lavoratori più scomodi, i più combattivi, i sindacalizzati, coloro che avevano rifiutato di fare ciò che non gli competeva, costretti a passare le giornate a giocare a carte o improvvisare partite di ping pong, per poi finire annichiliti e costretti a dimettersi o ad accettare il demansionamento per non impazzire.
Una realtà che se venisse solo raccontato potrebbe risultare assurda e al limite della caricatura, Riondino la racconta con mano sicura, realizzando un solido esemplare di cinema civile con punte di grottesco (non a caso, oltre a Elio Petri, l'attore e regista cita tra le proprie fonti di ispirazione il Fantozzi di Luciano Salce).

 

 

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