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Adagio

Regia di Stefano Sollima vedi scheda film

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Souther78

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La recensione su Adagio

di Souther78
5 stelle

Sollima gioca al noir all'americana in una Roma Losangelesizzata e calata in una cornice catastrofista. Purtroppo il film va ad accumulo (di attori di grido, di storie nella storia, di significati), finendo per scialacquare tanto il capitale umano quanto il canovaccio. Suggestivo, ma poco coinvolgente e interessante. Occasione sprecata?

 

Sollima gioca la carta del cinema noir d’oltreoceano, ambientando a Roma una storia che, nella narrazione e nelle riprese, si rifà ad atmosfere tipicamente stellestrisce. Il regista ha dichiarato espressamente di aver inteso rappresentare una Roma dall’alto, in cui l’attenzione verte sul traffico e il movimento, più che sui suoi monumenti. In questo senso l’opera è anticonvenzionale, e senza dubbio proietta un senso di spazialità amplificato, rispetto alle ambientazioni di minor respiro che ci hanno abituati a vie strette e tortuose sovraffollate di turisti. Ad aggiungere carica emotiva e pathos, un perenne incendio di sfondo e una calura talmente estrema da condizionare dialoghi e comportamenti. Su queste premesse, si agitano i protagonisti, tutt’altro che eroi, in una sorta di inseguimento guardie-e-ladri, che però somiglia più a un ladri-e-ladri.

 

Nelle intenzioni dell’autore, i rapporti padri-figli avrebbero dovuto occupare un posto di rilievo rispetto a tutto il resto, quasi ad arricchire di morale intimista una storia che, altrimenti, avrebbe dovuto considerarsi un semplice thriller con velleità da noir.

Linguaggio crudo, violenza a piene mani, scenari apocalittici, depravazione, conflitti intergenerazionali, corruzione, nostalgia, amori finiti e vecchi rancori. Ho dimenticato qualcosa? Forse troppo, per alimentare due ore di visione.

 

Se è vero che le suggestioni visive non mancano, è pure innegabile un certo senso di insuperabile distanza dai moti interiori che animano i personaggi, le cui storie ci vengono elargite in modo frammentato qua e là in corso d’opera, quasi che si stesse dipanando chissà quale oscuro segreto. Ma Sollima non è Fincher, e Adagio non è Seven: troppe attese e troppe diluizioni, per svelare segreti di Pulcinella.

 

Proprio la trama sembra il punto più debole, a partire dall’episodio principale che darà seguito a tutti gli eventi: non c’è quasi nulla che sembri verosimile. Dai “cattivi”, che agiscono come su binari, con ragioni e decisioni sempre più insensate. L’escalation drammatica non trova però assolutamente riscontro negli eventi che si susseguono, e tutto sembra artificiale. Proprio come l’incendio perenne alle porte di Roma, che assomiglia soprattutto alla c.d. programmazione predittiva, per indurre il pubblico a familiarizzare con lo stato assoluto basato sulle emergenze costanti. Basti pensare che praticamente non esistono incendi “spontanei”, poiché la stragrande maggioranza dei roghi estivi è dolosamente appiccata, e poi ci sono i casi di “distrazioni”. Certamente non è a 30 o 40 gradi che gli alberi si incendiano spontaneamente (ne occorrerebbero oltre 300!). Polniuman ci dice che questo caldo non è naturale. Ma quale caldo? E, soprattutto, perché, è naturale, invece, il cielo chimico che ricopre la penisola e gran parte del mondo civilizzato, con scie rilasciate da aerei di ogni tipo? Su queste note, quello che poteva apparire come un innocuo thriller nostrano sembra sfumare verso l’ideologico, come ormai va sempre più di moda. Del resto, quale strumento migliore del cinema, per creare percezioni alterate della realtà?

Anche se la capitale (e il mondo) non brucia, la carne al fuoco è decisamente tanta, forse troppa. La narrazione, inizialmente in crescendo, verso la metà arranca e rallenta, forse per lambire le aspirazioni introspettive del suo autore.

 

La sensazione è che Francesco di Leva, Toni Servillo e Valerio Mastandrea siano stati ampiamente sottoutilizzati, e inseriti più che altro per fungere da richiamo di pubblico. Viceversa, non sorprende che gli attori abbiano accettato pur di comparire in una simile, importante, produzione nazionale. In particolare, dispiace vedere di Leva relegato a un ruolo totalmente secondario, con pochissime battute all’attivo e senza alcuna caratterizzazione. Lo si sarebbe visto meglio nei panni del capo, anziché del braccio destro.

Favino, irriconoscibile, spicca su tutti senza problemi, ma anche lui dà la sensazione di non essere in parte: strappa l’elogio principalmente per le doti trasformistiche di cui fa sfoggio. Purtroppo, però, l’attore pare più credibile del suo personaggio e della storia che racconta.

 

L’inverosimiglianza si palesa presto, e non abbandonerà più la visione, affliggendola pesantemente e rendendola a tratti non plausibile, e, a tratti, poco interessante.

 

È un peccato che, per voler fare troppo, si sia finito per compromettere un’opera che avrebbe avuto un notevole potenziale, se solo avesse scelto quale via perseguire tra il dramma interiore e il thriller spinto e violento, o se, semplicemente, avesse saputo raccordare queste due anime.

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