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Ferite mortali

Regia di Andrzej Bartkowiak vedi scheda film

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La recensione su Ferite mortali

di genoano
5 stelle

Indagine a base di botte e piombo per un Seagal meno invincibile e più autoironico del solito che lascia spesso la scena a enigmatici cavalieri neri, belle donne, comici sboccati. La trama è valida, il linguaggio del film invece trae spunto da caserme, angiporti, penitenziari, ma con un tocco di volgarità in più. Voto 5 e mezzo.

Tra le fatiche di Ercole, inviso al re Euristeo e alla dea Giunone, una delle più divertenti è la pulizia delle sozze stalle del re Augia. In "Ferite mortali" il roccioso e spiccio poliziotto Orin Boyd (Steven Seagal) coi suoi metodi si attira l'antipatia di un pezzo grossissimo di Washington, D.C., che non sarà un re nè di certo una divinità, ma basta e avanza per farlo trasferire nel quartiere più difficile di Detroit (anche se, per risparmiare sulle maestranze, in realtà il film è stato girato dall'altra parte del Lago Michigan, in Canada), dove l'eroe dovrà sudare sette camicie per far pulizia al di fuori e all'interno del commissariato. Dopo una serie di film sfortunati Seagal passa dall'action puro al poliziesco-action, e con umiltà rinuncia al suo ruolo da mattatore-superman invulnerabile per prendersi un po' in giro, dando vita ad un personaggio più fallibile del solito, che vince solo quando comprende l'importanza di fare gioco di squadra; viene premiato dal pubblico che porta il film a incassare 80 milioni di dollari, due volte e mezzo i costi. Ma per lui è il canto del cigno cinematografico, forse l'ultimo suo lavoro di buon livello: il tempo passa per tutti (spesso nelle scene d'azione del film viene sostituito dalla controfigura) e gli anni successivi lo vedranno impegnato prevalentemente in produzioni televisive e straight to video più modeste, non proprio ineccepibili, sempre meno credibili. Le coreografie action in cui semiautomatiche si incrociano come lame di spade e la rappresentazione di legge e crimine come forze commiste che si controbilanciano, simile a un simbolo del tao, ricordano il cinema di Hong Kong, ma qui in regia c'è Bartowiak,  e non John Woo nè Andrew Lau/Alan Mak, e la differenza si nota. La stella dell'hip hop del periodo DMX ricopre un ruolo da co-protagonista o giù di lì, portando in dote al film una bella cover del classico del rhythm'n blues di Bill Whiters "Ain't no sunshine", mentre le belle Jill Hennessy ed Eva Mendes danno un tocco di classe e di fascino ad una pellicola per il resto piuttosto truce, nella violenza e nel linguaggio; in tal senso si raggiunge il culmine nel finale, in cui i comici Tom Arnold e Anthony Anderson duettano in una parossistica jam session a base di parolacce, nefandezze e zozzerie assortite che chiude in bruttezza un film per altri versi piuttosto valido.

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