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La leggenda del rubino malese

Regia di Anthony M. Dawson (Antonio Margheriti) vedi scheda film

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La recensione su La leggenda del rubino malese

di giurista81
5 stelle

Nel 1984 esce il successo commerciale Indiana Jones e il Tempio Maledetto, occasione che rinnova l'impegno di Antonio Margheriti che chiude la sua trilogia derivativa avviata con I Cacciatori del Cobra d'Oro (1982) e proseguita da I Sopravvissuti della Città Morta (1984). Giovanni Simonelli viene confermato alla sceneggiatura, così come ritroviamo Luciano Pigozzi, attore presente in moltissimi film italiani girati nelle Filippine. Subentrano rispetto alle precedenti avventure Christopher Connelly e Lee Van Cleef, entrambi negli ultimi anni della loro vita (moriranno tre e quattro anni dopo). Simonelli mischia le avventure di Indiana Jones ai war movie ambientati nella giungla che, in quegli anni, Margheriti era solito girare. Come per le pellicole di Spielberg, la storia viene ambientata a fine anni trenta, in Malesia. Protagonista è una guida truffaldina, interpretata dal granitico Connelly (attore americano finito nel circuito dei B-Movie italiani d'azione), che organizza, al soldo di facoltosi americani, spedizioni alla caccia di presunti reperti storici (in realtà dei falsi) dispersi nella giungla, mettendo in scena inseguimenti e aggressioni per mano di indigeni da lui stesso pagati all'insaputa dei clienti per rendere più esaltanti le missioni. Margheriti e Simonelli prendono l'abbrivio subito in quarta, "alla Spielberg", inserendo un prologo funzionale a presentare il protagonista e la sua spalla (Pigozzi). Chiuso il prologo parte il film vero e proprio. La "nostra guida", Capitan Yankee, viene assoldata per una spedizione vera che coinvolge anche un rappresentante del governo americano (un Lee Van Cleef smunto e piuttosto invecchiato, agghindato da pistolero). L'obiettivo è recuperare un rubino malese sepolto insieme a un pirata in una montagna/vulcano. Simonelli non va tanto per il sottile nella scrittura del copione. Dimenticatevi le sottiglienze pseudostoriche di Indiana Jones. Qua si bada all'azione, sebbene la pellicola abbia una prima parte non troppo coinvolgente. Walter Patriarca realizza delle bellissime scenografie tra le rocce della montagna, tra fiamme che si liberano da un fiume infestato di petrolio e pipistrelli posticci che volano per indicare l'uscita. Il film, a metà narrato, decolla e regala una ventina di minuti di alto cinema di intrattenimento. Connelly si aggrappa a liane per spostarsi da un costone all'altro, sorvolando un fiume di fuoco che arde sotto di lui, muovendosi in una sorta di tempio sotterraneo dove trova la mummia di un pirata al cui collo brilla un rubino scintillante. Un po' come in Indiana Jones Connelly deve impegnarsi per recuperare il reperto e, una volta afferrato, dovrà far fronte a tradimenti che rimandano a Spielberg.

Purtroppo la buona piega presa dal film si perde nel giro di poco, andando a riprendere gli stilemi del war movie nella giungla. Si segnalano un bimbo che alleva cobra come animali domestici, una testa decapitata che rotola tra le rocce (spiccata citazione al finale di Indiana Jones e Il Tempio Maledetto) e molte esplosioni ben confezionate con detonazioni e gettito di lanciafiamme. Lascia qualche dubbio la presenza di caterpillar nel 1938 che spianano arbusti e distruggono costruzioni, così come di lanciafiamme persino sprovvisti di bombole sulle spalle di chi li utilizza. 

Cast artistico povero, infarcito da molti attori locali. La sconosciuta e debuttante Marina Costa è la donna d'azione combina guai che si trova a collaborare con Connelly in quanto titolare di un museo. Ne combinerà di tutti i colori, specie alla guida di un'autovettura del tempo che fu, col "nostro" eroe sballonzolato dietro al mezzo. La ritroveremo, lo stesso anno, ne L'Ultimo Guerriero di Romolo Guerrieri per poi perdersene le tracce. 

Il jazzista Cal Taormina, importante collaboratore di maestri quali gli Oliver Onions e Morricone, cura in proprio la modesta colonna sonora. Avventura all'italiana tra alti e bassi, con un maggiore impegno in sceneggiatura sarebbe potuto saltar fuori qualcosa di superiore. Quadrata la regia di Margheriti, senza tanti fronzoli e invenzioni, eppur calibrata.  

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